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Franco Cordero
Il grande gioco del Barnum forzaitaliota
10 Aprile 2004
I tempi del cavalier B.
Ciò che mi piace in Franco Cordero (questo articolo è uscito su Repubblica il 5 settembre 2003) è che continuamente ribadisce come B. sia una profonda e perversa anomalia del sistema democratico italiano. Che poi l’humus che l’ha alimentato sia del tutto italiano, è un altro discorso. In calce, l’ineffabile articolo dell’ambasciatore Romano, al quale Cordero si riferisce.

C’era un oratore da banchetto, pronto e infallibile anche sull’argomento più ostico che i commensali scegliessero a sorpresa: a esempio, «femore»; e lui volava. «Il femore, o signori, è un osso d’armoniose proporzioni». Loquela innocua, spendibile nelle cerimonie nuziali, funebri, accademiche. Fioriscono anche elocutori meno dediti all’arte pura. Eccone uno nelle cui ballate spesso figura Berlusco felix (così i contemporanei chiamano Lucio Cornelio Silla, al quale riesce ogni impresa). L’anno scorso avevo raccolto due detti memorabili: una similitudine (l’affarista barzellettiere paragonato a De Gaulle) e l’articolo dove, a proposito del conflitto d’interessi, enumerava tre effetti negativi. Primo: finché sia malvista dall’Europa, Mediaset non acquisirà mai i "gioielli televisivi" continentali; Deo gratias, direi. Secondo, la Rai è succuba della sinistra. Infine (salto acrobatico), i pubblici ministeri sono strapotenti e impuniti. Stavolta, fulmineo, risponde ai motivi della sentenza Imi-Sir e Lodo Mondadori stroncandola (Corriere della Sera, 8 agosto). Hanno cinque colpe gli autori: predicano valori morali; dipingono l’imputato; rievocano le polemiche esplose durante il processo; rivendicano l’imparzialità; scrivono storia. Roba da "giustizia militante", "tribunali speciali", "Stato etico" (i modelli novecenteschi sono corti moscovite 1936-38, il Volksgerichthof nazista, i nove scherani in divisa nera che condannano i "traditori" fascisti a Verona, 10 gennaio 1943). Poi spiega come motivino le sentenze i "buoni sistemi giuridici". Indi declama punti interrogativi: cosa legittima gli ayatollah togati al mestiere storiografico? (lui compone historiettes divulgative); può un giudice dolersi degli attacchi subiti?; non è "conflitto d’interessi" pari al berlusconiano? Ormai nei circoli neutrali è mala physiognomìa avere riflessi morali e una testa che pensa.

Irriconoscibile. Ha cambiato stile, dalla prosa notarile al canto impetuoso e ventila l’idea d’una falsa giustizia milanese. Forse qualche credulo beve ma ogni lettore sveglio fiuta il trucco, svelato nell’intervista al presidente del collegio (p. 10). Perché due atipiche pagine introduttive? Risposta: "uno scatto d’orgoglio"; avevano taciuto anni interi sotto infami contumelie. Risposta limpida, noncurante dei commenti obliqui. L’ex-ambasciatore pilucca nelle due pagine, ignorandone 535. Se cerca una macchina critica d’ottima fattura, legga quelle sui reperti, dalle minute d’atti giurisdizionali sequestrate negli archivi d’avvocati-ombra ai conti bancari esteri: Corte d’appello e Cassazione diranno se resti qualche dubbio; spacciarle come fiction politicante è gesto falsario. Lo lasci agl’interessati o al personale del Barnum forzaitaliota.

Gli argomenti della seconda metà tagliano il fiato: a Milano c’è un tribunale montagnardo; condannando elude la questione del come mai avvenissero tante baratterie. Qui pesca nel Foglio 7 agosto, fonte quasi biblica: delinquevano tutti, politici, imprenditori, finanzieri, "persino alcuni magistrati" (infatti, sedevano alla sbarra nelle aule milanesi); correva una "contabilità perversa" tra economia e politica; burocrati corrotti; imprenditori d’avventura perseguivano impunemente disegni impensabili nel mercato. Ha descritto benissimo l’impero televisivo fondato sul privilegio. Allora è una fandonia la ghigliottina con cui "i comunisti", manovratori della magistratura eversiva, decapitano l’Italia liberal-cattolica affossando una virtuosa classe politica: nei primi anni Novanta il malaffare pullula dovunque un pubblico ministero scavi; anzi, basta grattare col dito; e ripullula nel terzo millennio sotto l’ala liberista (perciò gli homines novi vogliono procure ministeriali, affinché nessuno disturbi gl’integrati).

Resta l’ultimo quarto, sbalorditivo. Che la malattia richiedesse terapie politiche, l’aveva detto Craxi (eponimo del sistema). Oggi l’ascolteremmo. Se vuol essere fedele alla sua missione storica, B. rilanci l’idea: ha tutti i titoli; "vecchio imprenditore", conosceva a menadito i giri. Non è perfida ironia. Gli consiglia mosse clamorose: promuovere un bagno collettivo; esca "dal pantano in cui rischiamo" d’affogare; "vol[i] più alto"; "molti gliene sarebbero grati". Se ho capito bene, raccomanda una bevuta nel fiume Lete, pochi sorsi del quale estinguono le memorie. Lavarsi significa oblio delle cose antipatiche. Fingiamo che B. sia vero imprenditore, dagli esordi adamantini, senza passato piduista, uomo d’una sola parola, incline al rispetto delle norme, lettore d’Erasmo e Tommaso Moro, mai volgare: che i network non nascano dal privilegio negoziato sotto banco; i relativi programmi coltivino le anime; l’agonista d’Arcore non falsifichi bilanci, né frodi il fisco; convertendo l’azienda nel partito, salvi l’Italia dal drago comunista; e siccome guarda solo l’interesse collettivo, sia inutile ogni cautela normativa. Nei mondi virtuali il passato fluttua: ci vuol poco a cambiarlo, ancora meno se cooperano gli oppositori; insomma, torniamo all’aprile 1994 quando, unto dal popolo, destina alla giustizia l’on. P., ora condannato a 11 anni dal "Tribunale speciale".

Peccato che l’incantesimo non attecchisca. Pochi italiani bevono dal Lete. Mentre S.R. predica bagni pro divo Berluscone, la campana economica suona a morto: secondo calo stagionale del Pil; è la prima volta dopo 11 anni; e da 2 pontifica lo pseudo-taumaturgo insuperabile nell’arricchirsi in barba alle regole. Sebbene voli sulla mongolfiera d’un Ego mostruoso, sente l’acqua alla gola: infatti, cova misure straordinarie; gli presterà man forte l’hard boiled ex-ministro degl’Interni, reso famoso dal turpiloquio su un morto davanti al quale dovrebbe stare col cappello in mano, chiedendo umilmente perdono.

Parliamo ancora dei tropismi: sono movimenti d’un organismo, pianta o animale, causati da stimoli esterni; se ne vedono tanti nel bestiario politico. Ne abbiamo alcuni sotto gli occhi. Giovedì 7 agosto, apparsi i motivi della condanna, «Il Foglio» intavola una disperata difesa: così facevano tutti, come nell’opera; e B. non è anacoreta. Vero ma le tangenti sono colpe veniali davanti alla giustizia venduta, specie quando porti al corruttore un impero editoriale. Stride la conclusione: che meriti una corona perché rampava meglio dei concorrenti, tanto da accumulare tesori diventando anche presidente del consiglio; siamo già a Tortuga, isola pirata? L’indomani canta l’ex-feluca. Dalle stesse colonne, sabato 9, varia l’antifona uno la cui rubrica emette fiamme: in posa zarathustriana assale "i moralisti a senso unico"; su, allestiscano un girotondo sullo scandalo Cirio; "meditate gente, meditate" sull’"l’Italia antica", organicamente malavitosa. I corollari emergono da soli: al diavolo i moralismi; fidatevi del self-made man d’Arcore, liberista sui generis dal quale lo scandinavo non compra nemmeno un’automobile usata; il futuro nasce dalle sue lanterne. Se le risorse dialettiche del circo criptoberlusconiano sono tutte lì, mala tempora currunt. L’abbiamo visto così tremebondo da disdire l’appuntamento veronese con Schroeder all’Arena: temeva i fischi; ormai vive nel virtuale. E come strepita l’ignivoro (ivi, 24 agosto) sul fatto che, Lui assente, l’orchestra esegua gl’inni nazionali, con profitto morale del futuro antagonista.


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Stato di diritto e veleni diffusidi Sergio Romano

Nella migliore tradizione giuridica i tribunali non sono cattedre di pubblica e privata moralità, non fanno il ritratto caratteriale dell'imputato, non alludono alle contestazioni polemiche che hanno accompagnato il processo, non rivendicano l'imparzialità della corte, non stabiliscono raffronti storici tra gli atti presi in esame e altri analoghi commessi in un più lungo arco di tempo. Tali argomenti appartengono generalmente allo stile della giustizia militante e a quello dei tribunali speciali dove la condanna deve essere esemplare e la sentenza è una pietra o un mattone per il cantiere dove si costruisce lo Stato etico. Nei buoni sistemi giuridici, invece, la motivazione della sentenza è un documento freddo e grigio dove si descrivono i fatti, si elencano le prove, si verificano le responsabilità e si applicano le pene previste dal codice. E? tanto più credibile quanto più è distaccata, imperturbabile, stilisticamente anonima. Valutata con questi criteri, quella di Milano nel processo contro Cesare Previti e altri imputati pecca per eccesso e per difetto, dice contemporaneamente troppo e troppo poco. Dice troppo perché molte affermazioni non si addicono alle funzioni e alle competenze di un giudice. Quali conoscenze storiche, quale sacerdozio morale autorizzano un tribunale ad affermare che questa «gigantesca» opera di corruzione è «la più grande nella storia dell'Italia repubblicana»? E' opportuno che un tribunale si serva di una motivazione per deplorare gli attacchi subìti in corso d'opera? E? questo il luogo in cui il giudice ha il diritto di difendere polemicamente il suo operato? Non vi è forse in queste parole un conflitto d'interessi, simile a quello di Silvio Berlusconi quando si serve della sua cattedra di premier per difendersi nelle vicende in cui è imputato?

Ma la motivazione, al tempo stesso, pecca per difetto. Una volta adottata la linea del giudizio storico e morale, il tribunale avrebbe dovuto chiedersi perché vicende così gravi siano state possibili in Italia nel corso di questi anni. Il Foglio non ha torto quando afferma, in un editoriale di ieri, che i fatti giudicati a Milano sono manifestazioni di una illegalità diffusa in cui sono stati coinvolti per molti anni uomini politici, imprenditori, finanzieri, persino alcuni magistrati. Il finanziamento illecito dei partiti (quello di una potenza straniera per il Pci e quello degli appalti truccati per altri) ha avvelenato l'intera società italiana. Ha creato complicità inconfessabili tra politica ed economia. Ha instaurato una contabilità perversa in cui ogni favore andava ripagato. Ha incitato molti imprenditori a perseguire impunemente progetti che sarebbero stati, in una economia di mercato, inconcepibili. Ha autorizzato la burocrazia a chiudere gli occhi o, peggio, a «monetizzare» le proprie funzioni. E ha prodotto una impressionante cascata di comportamenti illeciti.

Ho sempre pensato che un fenomeno così vasto non potesse essere affrontato con gli strumenti della giustizia ordinaria e che la sua cura dovesse essere principalmente politica. Bettino Craxi, che in Parlamento aveva cercato di analizzarlo, fu poi accolto da un lancio di monetine. Oggi forse, dopo l'esperienza di un decennio, verrebbe ascoltato. Mi chiedo se Berlusconi, anziché continuare a denunciare teoremi e complotti, non abbia interesse a seguirlo sulla stessa strada e a promuovere una specie di lavaggio nazionale. Nessuno meglio di lui potrebbe, come vecchio imprenditore, parlare di quegli anni con maggiore competenza. Certo, se decidesse di farlo, continuerebbe a essere accusato di «interesse privato in atti d'ufficio». Ma uscirebbe dal pantano in cui rischiamo di affondare e volerebbe più alto. Molti gliene sarebbero grati.

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