Oggi il mondo - così come lo conoscevano gli esploratori da Marco Polo a Magellano, ma anche gli urbanisti costruttori del sogno moderno della città pianificata - sembra fuoriuscire dalle mappe e dilatarsi a dismisura al punto che i vecchi modelli della descrizione cartografica non bastano più. La nuova economia globale finanziaria ha infatti accorciato le distanze e compresso il tempo per la velocità dei trasporti e delle informazioni, tanto che - più che di fine della storia - verrebbe da parlare di fine della geografia. Una trasformazione, questa del rapporto tra i sistemi di produzione e la rappresentazione dello spazio, che ha appassionato critici dell'economia politica come David Harvey ( La condizione della modernità, Il Saggiatore); urbanisti e filosofi come Paul Virilio ( Città panico. L'altrove comincia qui, Cortina) e, non ultimi, i geografi. Ed è da queste considerazioni che prende avvio il nostro incontro con Franco Farinelli, professore di geografia all'Università di Bologna e autore di Geografia, edito da Einaudi (ne ha parlato su Alias del 29 febbraio Marco Belpoliti).
Alla mostra L'immagine antica del territorio, in corso a Venezia al museo Correr, appare evidente come le mappe e gli strumenti del cartografo fossero indispensabili per l'organizzazione del bacino lagunare da parte dello Stato. In che modo è cambiato oggi il rapporto tra geografia e potere?
Ma la modernità, tutta la modernità, consiste nella compiuta riduzione del mondo alla sua forma geografica. Ha scritto tanto tempo fa Jacob Burckhardt che lo stato moderno è «un'opera d'arte», e l'espressione va intesa alla lettera: lo stato è una tavola dipinta, una pittura, un quadro. E la geografia, insegnava Tolomeo, è l'imitazione della pittura del mondo, cioè della carta geografica. La modernità nasce quando, all'inizio del Quattrocento, ricompare a Firenze l'opera geografica di Tolomeo, scomparsa dall'occidente dodici secoli prima con la crisi del sistema imperiale romano. Ma rispetto al passato il Moderno instaura una straordinaria inversione: la geografia resta l'imitazione della carta geografica, ma quest'ultima a sua volta non è più la copia del mondo, bensì è il mondo che diventa la copia della carta. Con buona pace di Baudrillard che invece nella precessione del simulacro - nel fatto che appunto la mappa preceda il territorio - vede l'inizio della postmodernità. In ogni caso lo stato, il territorio statale diventa in termini moderni la copia della mappa. E infatti lo stato moderno ha da essere, proprio come una tavola, continuo, omogeneo ed isotropico, deve dunque possedere le tre proprietà che nella geometria euclidea appartengono all'estensione. Quello che si chiama potere è stato, modernamente, nient'altro che la pratica d'assecondamento di tale modello, dunque l'esercizio e la gestione del primato della logica cartografica. Ma oggi la situazione inizia a mutare, anche se non sappiamo ancora come, perché la globalizzazione, qualsiasi cosa con tale processo s'intenda, implica anzitutto la comprensione letterale del termine, e significa che non è più possibile contare sulla potentissima mediazione cartografica per capire quello che la Terra è, cioè un globo.
Nel suo libro, lo studio della geografia urbana rivela uno stretto legame tra l'organizzazione della città e la produzione del capitale. Nel secondo dopoguerra questo legame si consolida e viene modellato sulle esigenze del nuovo patto sociale di tipo keynesiano-fordista. Quali sono i cambiamenti più importanti per la vita della città in questo periodo?
Vi è differenza tra la città fordista e la città keynesiana, anche se la seconda prosegue la prima. La città fordista è una città nazionale, topografica e visibile, dunque ancora moderna nel senso pieno del termine, nel senso che la città imita la carta, il suo funzionamento continua a obbedire alla logica di questa. Come già spiegava Gramsci nei Quaderni il fordismo si fonda sull'inclusione della città, e in particolare del suo sistema di trasporti, all'interno della produzione stessa. Sicché l'incremento delle funzioni si fonda ancora sulla rapidità degli spostamenti materiali, qualcosa che Giulio Cesare aveva già descritto e affermato col suo celebre modernissimo motto, che per essere compreso va letto al rovescio: ho vinto perché ho fatto in fretta e ho ridotto la comprensione alla visione. Per Cesare in tal modo si trattava di fare la guerra, per Henry Ford di fare le macchine, ma in ogni caso la regola era la velocità, la riduzione del mondo a tempo di percorrenza, cioè a spazio, a standard. Ma la città fordista è la città della produzione, mentre la città keynesiana è la città del consumo. Come ha argomentato David Harvey, difficilmente a partire dagli anni Trenta il capitalismo avrebbe potuto sopravvivere senza il consumo promosso dallo stato e finanziato dal debito. In questo senso la città keynesiana prosegue la città fordista, rilanciando lo sviluppo della città come motore dell'accumulazione, l'urbanizzazione del capitale. Il risultato fu la smisurata crescita delle periferie, nient'altro che una maniera per rendere necessari i prodotti e i servizi delle ditte di costruzioni, delle aziende petrolifere ed automobilistiche, delle fabbriche di gomma, che trasformò la città in un gigantesco artefatto per la redistribuzione dei redditi.
La geografia, dunque, come strumento per studiare non solo i rapporti tra l'uomo e lo spazio, ma anche i rapporti politici. Proprio a questo proposito è interessante la sua ricostruzione della svolta neoliberista del capitale. Lei sostiene che nell'agosto 1971, quando Nixon annullò la convertibilità del dollaro in oro, il considdetto gold standard, non è solo finita l'epoca del compromesso keynesiano-fordista, ma anche la possibilità di governare lo sviluppo dello spazio urbano in base a uno standard che fornisce la misura concreta dell'astrazione capitalistica. Alla luce delle trasformazioni del capitale che cosa accade da quel momento alla città?
L'evento decisivo che segna l'inizio della fine della città keynesiana fu nel 1969 la nascita negli Stati Uniti della prima rete di comunicazione elettronica. Mentre eravamo con il naso in su a contemplare la luna, o davanti al televisore a guardare il primo atterraggio su di essa, in silenzio la materia che ci circonda iniziò così, quasi nello stesso momento, a mutarsi senza clamore in immateriali unità d'informazione: preso nella rete, il mondo topografico e spaziale, quello che vediamo e che davvero distingue la superficie della Terra da quella del suo astro, il mondo moderno, iniziò a dissolversi. Si tratta di un vero e proprio reincantamento del mondo, l'opposto di quel che Marcel Gauchet, sulla scorta di Max Weber, gli assegna, cioè il disincanto. È l'inizio dell'esaurimento del regno del visibile. Da questo momento la crescita urbana si svincola del tutto dal quadro di riferimento dello stato-nazione (dall' ethos cartografico) per dipendere, secondo la logica dell'universalità del lavoro astratto, dai diversi rapporti della nuova economia mondiale: nazionali, internazionali, multinazionali, planetari. Perciò la città viene definitivamente a perdere, nel suo funzionamento, i suoi storici attributi euclidei, diventa discontinua e disomogenea e le sue parti sono funzionalmente voltate in tutte le direzioni. E l'astrazione del capitale finanziario da cui la sua attività dipende si riflette puntualmente nell'astrazione matematica dei modelli che per tutti gli anni Settanta ma anche in seguito pretenderanno di governare l'analisi urbana.
Saskia Sassen in Le città nell'economia globale (il Mulino) descrive il nuovo tipo di produzione, basata sugli scambi di informazioni e le transizioni finanziarie, che si svolge nelle città globali. Questo dato segna una differenza tra le città statunitensi ed europee, rispetto alle megalopoli asiatiche e sudamericane in cui si concentra una buona fetta della popolazione mondiale. Dal suo punto di vista, in che modo le città globali si differenziano dalle megalopoli e in che modo controllano la produzione?
Il concetto di città globale nasce alla fine degli anni Ottanta, proprio in riferimento alla crisi della città keynesiana e dei suoi modelli analitici. A farvi caso, esso è la traduzione a scala planetaria dell'idea di sistema urbano, che sul piano dell'analisi ha funzionato soltanto finché vi erano quadri territoriali nazionali, cioè sostanzialmente chiusi o presunti tali: l'idea cioè che vi sia una relazione, una connessione funzionale tra una città e l'altra. Da questo punto di vista le città globali sarebbero quelle al cui interno vengono esercitate le funzioni in grado di controllare tutte le altre, quelle finanziarie di ordine superiore. Proprio la mancata coincidenza tra livello funzionale e numero di abitanti, cioè tra città globali e quelle che anche lei chiama megalopoli, segnala una realtà che si pone in termini inediti rispetto al passato. La città più importante non è la città più grande, Zurigo è una città globale ma non lo sono Bombay o Buenos Aires, che pure hanno dieci volte il suo numero di abitanti, ma questo ci sorprende soltanto perché siamo ancora abituati a pensare il mondo come una tavola, dove la superiorità di una figura rispetto all'altra dipende dall'estensione, è cioè un dato quantitativo. Sassen ricorda, come esempio della catena della produzione finanziaria globale, che verso la metà degli anni Ottanta Tokyo è stata la principale esportatrice della materia prima chiamata moneta, New York il maggior centro di trasformazione di questa in prodotti intesi a massimizzarne il rendimento, Londra il raccordo dei mercati finanziari minori sparsi in tutto il mondo. Le città globali, come tutte le megacittà, sono connesse globalmente ma disconnesse localmente, fisicamente e socialmente, al punto che non ha più senso parlare di città. Che cosa davvero vuol dire oggi «Tokyo»? Se è così, è probabile che la storia della città sia la storia di una progressiva astrazione che da un pezzo (o forse dall'inizio) non si riesce a controllare.
Mike Davis in Geografie della paura (Feltrinelli) traccia la storia del nuovo assetto urbano di Los Angeles. La segregazione del centro urbano e del suo valore immobiliare rispetto ai ghetti rappresenta a suo avviso il nuovo modello dell'apartheid urbana del prossimo secolo. Lo stesso modello sembra essere stato esportato dagli americani nella nuova organizzazione dello spazio urbano di Baghdad: una «zona verde», in cui vivono gli occupanti, assediata da milioni di persone. Si può dire che le città globali siano l'evoluzione dell'ordine disciplinare della città del XX secolo?
Sì, a patto di intendere per ordine disciplinare il prodotto della logica tabulare-cartografica, e per evoluzione l'incremento della selettività e la concentrazione per frammenti dei suoi effetti. È indubbio che la disconnessione locale, fisica e sociale, la rottura dell'ordine euclideo, porti alla frammentazione materiale del mondo. È come se la mappa, impotente ad afferrare ed avvolgere tutto il mondo nella sua complessità, a fare di tutto il mondo la copia in un sol pezzo, lo faccia in tanti pezzi e se ne impossessi direttamente. È il processo che prende il nome di «road map», quella che dovrebbe regolare la soluzione bi-statale del contrasto tra israeliani e palestinesi. Primo, si nomina mappa qualcosa che è tutto fuorché una mappa, è anzi il suo contrario, nel senso che non contiene il disegno di nessun confine ma si compone di una serie di procedure politiche che debbono servire a stabilire il confine. Nel frattempo, una delle parti ( e non v'è bisogno che dica quale), in assenza di qualsiasi accordo, costruisce un confine che avanza, indietreggia, insomma cammina e diventa la strada per l'indebita inclusione di territorio, la «road map» appunto. Nella seconda metà del Novecento Borges ed Eco hanno descritto l'impossibilità di costruire una mappa grande proprio come il territorio che essa rappresenta, la mitica mappa 1:1. Adesso la stanno invece costruendo sotto i nostri occhi, nel senso che il territorio è direttamente la mappa.
Quella della mescolanza delle nazionalità è una realtà molto diffusa nelle città globali. Nel suo libro lei ricorda che un terzo delle vittime delle Torri gemelle non aveva una nazionalità americana. Sembra che dal Bangladesh provenisse più del doppio degli abitanti della Pennsylvania seppelliti dal crollo. A suo parere in che modo è cambiata la natura della frontiera?
Nell'antica Grecia un'unica parola serviva a designare i limiti e le montagne, significativamente la stessa che Euclide adopera per dire «definizione». Con la crisi della logica euclidea del funzionamento del mondo e della sua rappresentazione, il dato naturale e materiale non coincide più con il modello geometrico-ideale e l'immagine antropologica da cui il significato di frontiera (fronte) deriva non basta più. D'altra parte, anche molto prima della trasformazione degli atomi in bit, i confini più potenti erano spesso quelli che non si vedevano: si pensi a quelli che noi geografi chiamamo l'istmo ponto-baltico e l'istmo Stettino-Trieste, le due grandi linee ideali che collegano rispettivamente la foce della Vistola con quella del Dnjestr e la foce dell'Oder con il golfo di Trieste. A oriente resta il corpo tozzo dell'Europa, circondata da mari chiusi, che si confonde con l'estesa massa asiatica. A occidente è invece il merletto sfrangiato dell'Europa bagnata dall'Atlantico e dal Mediterraneo. Nessuna invasione proveniente da oriente ha oltrepassato, dopo la caduta dell'impero romano, tale doppio istmo, come confermano le ricerche genetiche di Cavalli-Sforza e dei suoi collaboratori. Fino a ieri è stato impossibile separare le specificità del corredo biologico umano dai lineamenti della faccia della Terra. Ma poiché anche questo viene oggi messo in dubbio dai risultati dell'ingegneria genetica, forse non possiamo davvero consolarci con quel che ha scritto Regis Debray: che l'arcaico non è soltanto quello che ci lasciamo indietro, ma anche quello che ci attende. Il che però resta ancora oggi l'ipotesi più plausibile, appunto perché la Terra non è una tavola ma una sfera, sicché quel che abbiamo alle spalle può tornarci, prima o poi, di fronte.