«Terzo Valico. Una lunga e controversa storia. il progetto dell’Alta velocità italiana: un piano che doveva essere finanziato dai privati,ma che in questi 25 anni è stato completamente pagato dallo Stato». Il manifesto, 20 luglio 2016 (c.m.c.)
Il Terzo Valico è il gigante invisibile delle grandi opere. Grande per impatto ambientale, per la spesa pubblica (6,2 miliardi di euro) e per la lunga e controversa storia, ma sconosciuto alla maggioranza delle persone. Una sorta di Golem, potente ma fragile.
Costellato da tantissimi stop and go, proclami, bocciature e travagli giudiziari, il suo sfumato racconto iniziò nel 1991, l’anno in cui venne presentato dal governo dell’epoca – era uno degli innumerevoli esecutivi Andreotti – il progetto dell’Alta velocità italiana: un piano che doveva essere finanziato dai privati, in primis le famiglie del capitalismo italiano, ma che in questi 25 anni è stato completamente pagato dallo Stato.
Dal primo tavolo dell’Alta velocità, apparecchiato per Fiat, Eni e Iri nell’estate del 1991, erano rimasti fuori i Ferruzzi e i Ligresti. Proprio a loro, in extremis (a dicembre), venne affidato il progetto del Supertreno Milano/Genova, che, dopo tre bocciature della commissione di Via (Valutazione d’impatto ambientale), grazie al salvataggio della legge obiettivo (considerata criminogena da Raffaele Cantone), diventerà successivamente Terzo Valico dei Giovi: dalla città della Lanterna fino alla piccola Rivalta Scrivia, frazione di Tortona.
Meno chilometri ma costi esponenzialmente lievitati. Si tratta di un tragitto ferroviario di 53 chilometri ad alta velocità, di cui 37 in galleria, che iniziano dal nodo ferroviario di Genova (Bivio Fegino) e arrivano nella Piana di Novi per poi ripiombare in una linea tradizionale. In questi anni, i proponenti e i favorevoli, al di là degli slogan («ce lo chiede l’Europa» e «senza Genova morirebbe»), hanno sempre eluso la domanda principale: serve davvero? Solo una seria e indipendente analisi costi-benefici avrebbe potuto dirlo, ma non è stata fatta.
L’11 novembre del 2011, l’ultimo giorno prima della caduta dell’esecutivo Berlusconi, con la firma del contratto per i lavori della linea, il gigante diventò visibile. Ma non senza problemi. D’altronde i guai giudiziari erano iniziati nella seconda metà degli anni Novanta, quando si avviarono i lavori per tre «fori pilota», cunicoli esplorativi per sondaggi geodiagnostici. Due di essi, nella Val Lemme, in provincia di Alessandria, da semplici rilievi esplorativi diventarono gallerie lunghe un chilometro.
Scattò la denuncia degli ambientalisti, con il Wwf in testa. E il 24 febbraio 1998 i cantieri furono chiusi dai carabinieri in seguito a un’inchiesta promossa dalla Procura di Milano con l’incriminazione del senatore di Forza Italia, Luigi Grillo, e dell’ingegner Ercole Incalza, accusati di avere speso soldi dello Stato senza alcun progetto approvato e per opere che non erano affatto «fori pilota».
Il processo per truffa aggravata ai danni dello Stato terminò anni dopo con la prescrizione dei reati grazie alla legge Cirielli. Il Sistema Incalza, così denominato successivamente, era già lampante nel 1998: un mix di burocrazia pubblica, privato affarista e cattiva politica che gestiva appalti sempre più cari.
Ed ora la ’ndrangheta.
Ma non è una sorpresa, la presenza della criminalità organizzata nei cantieri del Terzo Valico è stata documentata dai No Tav, in particolare nel settore del movimento terra, parallelamente alle procure. La presenza della ’ndrangheta è accertata sia in provincia di Alessandria sia in quella di Genova. Delle infiltrazioni se ne parlò, per esempio, a proposito del traffico illecito di rifiuti nelle cave del tortonese, quando fu comminata un’interdittiva antimafia all’imprenditore Francesco Ruberto, e se ne discusse quando fu arrestato per camorra il capo della Lande, Marco Cascella, subappaltatore nei cantieri della grande opera.
Con l’attuale indagine della procura di Reggia Calabria è stata accertata l’infiltrazione degli appartenenti alla cosca Raso-Gullace-Albanese in sub-appalti già aggiudicati per la realizzazione dell’infrastruttura. Alcuni affiliati avrebbero anche sovvenzionato i comitati «Sì Tav» per agevolare l’inizio dei lavori.
Contro tutto questo si è battuto anche ieri il movimento No Tav. A Pozzolo Formigaro, provincia di Alessandria, un centinaio di attivisti si è radunato per opporsi all’esproprio degli ultimi due lotti del cantiere.