Ragioniamo. Ho letto così il discorso di Asor Rosa ("I sette pilastri della saggezza", il manifesto....). Dai pezzi sparsi - proponeva - cerchiamo di ricostruire il puzzle, mettendo in fila eventi e fatti, ciò che di nuovo è accaduto e sta per accadere. Un saggio da rivista, più che un articolo di giornale. Ma il manifesto è un giornale pensante. E dunque sta bene così. Il passaggio è inedito. Il salto rispetto all'immediato passato c'è stato. È compito di ognuno di noi riposizionarsi sul nuovo terreno, nell'analisi e nell'iniziativa.
Forse non era proprio adatto il titolo, credo dello stesso autore. C'è già troppa saggezza attribuita al professor Monti da parte dei suoi molti improvvisati amici, da potergliene attribuire, sia pure ironicamente, una buona dose anche da parte nostra. Io credo che i professori al governo raramente siano saggi. E quando poi si tratta non del filosofo-re, ma del tecnico economista, voi capite che le cose non sono destinate ad andare per il meglio. E tuttavia questa è la soluzione trovata, bisogna dire con abile mossa da vecchia cara politica, per sbalzare di sella, dopo tanti falliti tentativi, il malefico Cavaliere. Se per più di quindici anni si è fatta politica per raggiungere questo unico salvifico obiettivo, è pressoché inevitabile che il mutamento acquisti i segni di una sorta di miracolo di S. Gennaro. Questo spiega una cosa di cui bisogna tener conto: non è solo il ceto politico, è il popolo di centrosinistra, entrambi monotematicamente antiberlusconiani, a guardare con moderato favore a questa soluzione finalmente trovata. C'è già stato il dibattito sulla necessità o meno di baciare il rospo. Si tratta adesso di fare più che un passo in avanti. E il discorso di Asor Rosa ha il merito di cominciare a farlo. Come tutti i suoi discorsi, ci dà il modo di prevedere il tempo che fa, da parte di una cultura ancora e sempre impegnata.
Questo è un governo tecnico con una missione politica. Tecnicamente ha il compito di tirare fuori il paese dal momento acuto della crisi economico-finanziaria, politicamente ha il compito di traghettare il paese fuori dalla lunga deriva della crisi politico-istituzionale. Su ambedue i fronti occorre marcare una presenza, autonoma, critica, propositiva, alternativa anche. Questo vale, magari con ricette diverse, per l'intera sinistra. Abbiamo guadagnato un terreno più avanzato, di lotta e di proposta. L'opportunità va sfruttata. Torniamo a parlare di problemi veri: di come è strutturata questa società, non solo di individui ma di ceti, di quali rapporti di forza tra le classi la attraversano, di quali vincoli effettivi impediscono la crescita, di quale ruolo deve avere il lavoro nel modello paese, di quale futuro non precario per le giovani generazioni.
Insomma, questo governo è destinato, suo malgrado, a riaprire, in grande, fino a farla esplodere, una questione sociale, che nell'immediato passato era stata nascosta come la polvere sporca sotto un tappeto trapuntato. E lo sta facendo, direi, non con saggezza ma con insipienza: creando conflitti, come è tipico della mentalità tecnocratica, con le categorie di nicchia invece che con gli interessi di fondo.
Loro non sanno che alla fine decisivi non sono i numeri ma gli uomini, e le donne, alla fine quelle che contano non sono le cifre ma le esistenze. Il governo non è l'amministrazione di un'azienda, è il luogo politico della decisione, sociale, e poi economica, e poi finanziaria: in quest'ordine di gerarchia. Per fare questo, non ci vuole l'Università Bocconi, ci vuole il partito politico. Non ci vuole la tecnocrazia come supplenza, ci vuole la politica come professione. Senza rivincita dell'istituzione Stato, cioè del potere politico, nazionale o sovranazionale che sia, non ci sarà rilancio del meccanismo economico. I capitalisti moderni lo sapevano, l'avevano capito sull'urto di crisi ben altrettanto devastanti. Non lo sanno questi capitalisti postmoderni, e infatti non riescono a gestire la loro crisi, tanto meno sanno come uscirne.
Qui, si apre lo spazio per l'irruzione in campo di una sinistra del lavoro, di intelligenza e di potenza tale da poter dire: noi sappiamo come rimettere in sesto le cose, ma dovrete prima di tutto pagare voi la vostra crisi. L'utopia di un rovesciamento del rapporto di forza può vestirsi oggi di lucidi realistici panni. Ma guardate come volano basso e con quale scarsa immaginazione! C'è questa sorta di governo mondiale di coalizione - internamente rissosa come tutte le coalizioni di governo - tra Banche centrali, Fondo monetario internazionale, agenzie di rating, e qualche spezzone rimasto di capitalismo reale dominato da corporations, e poi c'è l'intendenza che seguirà dei governi nazional-provinciali. Ebbene, tutta questa immane superpotenza non sa fare altro che usare la crisi come un tempo gli Stati usavano la guerra. Il debito, a rischio default, è il nemico esterno che ci minaccia. I fondamentalisti col temperino impallidiscono di fronte a questa potenza di fuoco.
A combatterlo, questo nemico totale, sono, siamo, chiamati tutti, senza distinzione di condizione sociale, per garantire un superiore interesse. Il capitalismo non sa fondare un ordine sociale con la politica, lo deve fare con la guerra, previa mobilitazione, appunto, totale. E siccome siamo in piena pace dei cento anni, più o meno come nell'Ottocento, al posto degli eserciti combattono i mercati. Noi tutti, per esempio, vecchi lavoratori colpevoli di essersi conquistata una pensione di anzianità e giovani precari senza lavoro ma con la possibilità di spendere un euro per diventare imprenditori, ognuno e tutti dobbiamo indossare l'elmetto e combattere arruolati nell'esercito del supermercato Eurozona.
A questa guerra "in forma", con tanto di resuscitato jus publicum europaeum, va opposta, anch'essa possibilmente "messa in forma", una resistenza di massa. Indignarsi col megafono davanti ai portoni del Palazzo è generoso ma insufficiente. Cercare di introdursi, disarmati, nella stanza dei bottoni è inutile e perdente. Vanno rivisitate e aggiornate ambedue le postazioni, quella di lotta e quella di governo. Accordarle non è più possibile senza prima destrutturarle e ricostruirle. La risposta di movimento gridava: non pagheremo noi la vostra crisi. Quelli stessi che gridavano, quella crisi la stanno pagando. La risposta di governo delle varie esperienze di centro-sinistra, in Italia e in Europa, non è stata, essa, a mettere in crisi la fase neoliberista. Alla fine, in crisi ci si è messa da sola.
E'un dramma storico, di repliche dei fatti alle intenzioni, non più sopportabile. Bisogna assolutamente trovare la leva per sollevare il gigante che dorme. Questo corpo è un'opinione di sinistra, potenzialmente maggioritaria, che non riesce a marcare la propria forza e presenza. E perché? Perché, o non ha voce: l'assenza dal voto si può ragionevolmente pensare che esprima in buona parte questo orientamento. Oppure, ha troppe e troppo diverse voci: lasciando dietro di sé la tradizionale immagine del circo Barnum. Va messo in campo un potente processo di inclusione a sinistra: di strati, ceti, lavori, professioni, generi, culture. Costruito su un polo unitario magnetico. Finché ci saranno più sinistre, non ci sarà nessuna sinistra: con la forza di contare, e la determinazione a vincere. Nessuna volontà di omologazione delle differenze, ma la presa di decisione di farle vivere dentro un soggetto unico. È la condizione indispensabile per riprendersi quanto ci è stato sottratto: autonomia e iniziativa, più precisamente, autonomia culturale e iniziativa politica.
Sta maturando il tempo, passo dopo passo, di un abbandono, per questo nostro paese, delle sue anomalie. In fondo quello, alto-borghese, del Professore e dei suoi tecnici è, per ragioni diverse, un governo non meno "strano" di quello del Cavaliere e della sua corte feudale. Né dell'uno né dell'altro c'è stata e c'è traccia nei paesi avanzati, in Europa e in Occidente. Qualcuno disse che dovevamo avviarci ad essere un paese normale. E' il momento che si faccia il passo decisivo. C'è la fortunata coincidenza di un disfarsi, per consunzione, di questa sciagurata cosiddetta seconda Repubblica e del dissolversi, per via di crisi, di un'economia sregolata, infettata dagli spiriti animali mercatisti. Le due vicende hanno proceduto di pari passo. Prendiamo il governo Monti come l'atto finale della transizione. Quando ti arriva una scelta di sistema, che si presenta come obbligata, devi sapere subito come utilizzarla. Abbiamo capito che su di essa si esplicherà una manovra di ricomposizione centrista del fronte moderato. In questo senso, c'è una funzione politica del governo tecnico. Va esplicata una contromanovra di ricostruzione di un bipolarismo virtuoso, contro quello vizioso sperimentato fin qui.
La legge elettorale acquista allora un'importanza strategica. Un grande centro e una grande sinistra, depurati delle tradizionali espressioni ideologiche, sono gli interlocutori ideali di un confronto politico alto, all'altezza delle forze politiche che hanno fatto non la prima Repubblica, hanno fatto la Repubblica e basta. A destra, emarginate, le pulsioni populiste antipolitiche. Riconquistare la nobiltà della politica è possibile per questa via? Vediamo. Proviamoci. La svolta non è dietro l'angolo. Abbiamo un anno per seminare. E poi una legislatura costituente per raccogliere.