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Pio Rossi
Il giardinaggio biologico: l'origine e i principi
11 Dicembre 2005
Articoli del 2004
La sommatoria degli spazi non edificati rappresenta il fattore ambientale base di qualunque area di insediamento umano. Specie per le zone urbanizzate si pone il problema di utilizzare tecniche e obiettivi avanzati. Dal Notiziario della Scuola di Agraria del Parco di Monza, dicembre 2004 (f.b.)

Il testo che segue è tratto da una dispensa a uso didattico elaborata dall'Autore

Il concetto di giardinaggio biologico e naturale, cioè di quell’insieme di pratiche che rispettano l’ambiente e le caratteristiche naturali delle piante ornamentali e le loro associazioni spontanee, affonda le sue radici nell’esperienza del giardiniere irlandese William Robinson e della pittrice Gertrude Jekyll, ma soprattutto nel mondo variegato dell’agricoltura biologica di questi ultimi 70 anni e del più recente pensiero naturalista ed ambientalista.

Dopo secoli in cui erano stati di moda giardini molto formali, nella seconda metà del 1800 William Robinson riuscì a rivoluzionare il giardinaggio inglese, facendo appello all’informalità nel disegno e alla coltivazione naturale. Pubblicò nel 1870 The Wild Garden, in cui però teorizzava la naturalizzazione di piante esotiche associate o come sottobosco di piante autoctone, in boschi naturali e sottoboschi cedui. Gertrude Jekyll, fra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 portò un’ulteriore innovazione nel creare bordure in cui piante esotiche crescevano assieme a piante comuni e selvatiche, lasciando il bosco incontaminato ed autoctono.

La rivoluzione industriale e l’introduzione massiccia delle macchine portarono alla pratica della monocoltura e della produzione vegetale condotta sempre più in modo artificiale con l’ausilio di concimi chimi ci ed antiparassitari di sintesi. Successivamente ci fu una riscoperta delle pratiche agricole di un tempo e si svilupparono varie correnti di pensiero che si qualificarono in vari modi, ma che avevano in comune alcuni principi fondamentali, come il rispetto per l’ambiente e l’importanza della policoltura per conservarlo equilibrato.

L’IFOAM (Federazione Internazionale dei Movimenti , per l’Agricoltura Organica) definì in questo modo il concetto di agricoltura biologica: ”L’agricoltura biologica comprende tutti i sistemi agricoli che promuovono la produzione di alimenti e fibre in modo sano socialmente, economicamente ed a livello ambientale.

Questi sistemi hanno come base della capacità produttiva la fertilità intrinseca del suolo e nel rispetto della natura delle piante, degli animali e del paesaggio, ottimizzano tutti questi fattori interdipendenti.

L’agricoltura biologica riduce drasticamente l’impiego di inputs esterni attraverso l’esclusione di fertilizzanti, pesticidi e medicinali chimici di sintesi. Al contrario utilizza la forza delle leggi naturali per aumentare le rese e la resistenza alle malattie “.

Le varie linee di tendenza dell’agricoltura biologica sono riassunte in aggettivi, riportati qui di seguito.



Biologica (propriamente detta): rivalorizza tecniche tradizionali ed innovative sperimentate scientificamente, compresa l’influenza lunare sulle colture. Uno dei suoi maggiori esponenti è Claude Aubert, biologo, che dopo esperienze di progetti di sviluppo in Africa e la constatazione degli ingenti danni provocati dalla monocoltura, ha diffuso l’agricoltura biologica soprattutto in Francia a partire dagli anni ‘60.



Biodinamica: si basa sul concetto di azienda autosufficiente a ciclo chiuso, sull’utilizzo di compost attivato con biostimolatori naturali (chiamati preparati) in cui sono concentrate le energie astrali, nonchè sull’influenza degli astri nei cicli biologici degli esseri viventi. L’agricoltura biodinamica è l’espressione applicativa della teoria dell’Antroposofia dell’agronomo tedesco Rudolf Steiner (1861-1925).



Naturale: basata sui 4 principi di non lavorare il terreno (il quale viene lavorato naturalmente dalle radici e dalla fauna terricola), di non fertilizzare (restituendo al terreno solo gli scarti delle produzioni), di non sarchiare per eliminare le erbacce (queste hanno un loro ruolo nell’equilibrio ambientale), di non usare pesticidi (gli insetti nocivi non esistono), in una valorizzazione massima degli equilibri ambientali e dei fattori naturali di riequilibrio biologico. L’ideatore di questa teoria è il fitopatologo Masanobu Fukuoka, giapponese, che ha sperimentato nella pratica i vantaggi di una produzione agricola a minimo impatto ambientale e a minimo impiego energetico.



Permacoltura: basata sull’uso della terra su piccola scala, sulla policoltura intensiva invece che sulla monocoltura estensiva, sulla prevalenza di coltivazioni perenni rispetto a quelle annuali, sulla grande varietà di specie vegetali, di animali, di raccolti, di microclimi ed habitat, sull’uso di specie locali e non ibridate, sull’integrazione dei vari elementi del sistema (persone, piante, animali, sole, vento, acqua, edifici, forma del terreno in una varietà di rapporti funzionali ed integrati), con particolare riguardo verso le cosiddette terre marginali, ripide, rocciose, aride, paludose, considerate convenzionalmente non produttive. Il promotore della permacoltura è l’australiano Bill Mollison.



Sostenibile (dal punto di vista ambientale): si propone di riformare scientificamente l’agricoltura industriale, trasformandola da pratica distruttiva in attività quanto più possibile conservativa. Essa accetta i contributi del movimento biologico come ad esempio la biodiversità, la rotazione delle colture, il rispetto dell’ambiente, l’uso di tecnologie più “dolci”. L’esponente di maggior spicco di questa tendenza è il sudamericano Miguel A. Altieri, entomologo e ricercatore presso l’università di Berkeley, in California.

Questi contributi, sperimentati e sviluppati soprattutto in agricoltura, ora possono essere estesi sempre più al settore del verde ornamentale e del vivaismo.

L’urbanizzazione crescente, peraltro, sta sempre più erodendo vaste aree a vocazione agricola o forestale, per una loro conversione ad uso abitativo ed industriale. Contemporaneamente si è però manifestata una crescente esigenza di aree verdi, atte a migliorare la vivibilità in queste aree urbane e a costituire oasi di ricostituzione della vegetazione preesistente.

L’uso di specie autoctone e rustiche è quindi diventato sempre più frequente, limitando l’impiego di specie esotiche, spesso poco acclimatate e più sensibili all’inquinamento. È nato quindi il concetto di giardino biologico o naturale, in cui è d’obbligo la biodiversità, la valorizzazione di piante spontanee e l’uso di tecniche di giardinaggio biologicamente compatibili.

Come meta ultima si tende al raggiungimento di un climax urbanizzato in cui attività ed insediamenti umani prevalenti coabitino in un equilibrio stabile con un ambiente naturale diversificato.

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