L’attacco statunitense contro i presunti terroristi in Somalia è assai grave. E ciò non solo perché, come ha osservato il ministro D’Alema, costituisce una misura unilaterale politicamente deprecabile e destinata ad accrescere l’instabilità di quella zona del mondo. E’ grave anche perché contrario alle regole del diritto internazionale. Le autorità di Washington si difendono affermando di aver previamente ottenuto il consenso del presidente somalo Yusuf. Ma, a parte l’esilissima rappresentatività di Yusuf, il consenso ad Usare la forza non può mai giustificare l’uccisione di persone, di cui peraltro solo l’intelligence americana ci dice trattarsi di terroristi: altrimenti ogni Stato potrebbe permettere ad un altro Stato di massacrare i propri cittadini (perché, ad esempio, oppositori politici). Il consenso del presidente Yusuf poteva al più autorizzare gli Usa ad usare la forza per catturare i presunti terroristi e consegnarli alle autorità somale o ad organi internazionali, perché venissero processati.
L’azione statunitense dei giorni scorsi costituisce in realtà il punto di approdo di una svolta preoccupante nell’azione degli Usa contro il terrorismo. Negli anni 80 Washington correttamente seguiva la via maestra della "risposta penale", nel lottare contro terroristi stranieri: chiedeva allo Stato che li ospitava di arrestarli e poi estradarli, perché fossero sottoposti a processo negli Usa. Se quello Stato si rifiutava di consegnare i presunti terroristi, gli Usa agivano in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu per adottare sanzioni contro lo Stato recalcitrante. E’ ciò che avvenne con i libici autori dell’attentato di Lockerbie, che alla fine Gheddafi, per far cessare le sanzioni, consegnò, perché venissero processati. Non che gli Usa si attenessero in tutto e per tutto alle regole internazionali. Ad esempio, in qualche caso usarono illegittimamente la forza sull’alto mare per arrestare un presunto terrorista arabo (Yunis); ma il fine era quello, poi conseguito, di sottoporlo a processo negli Usa. Insomma, all’epoca non venivano praticate le extraordinary renditions di oggi (usate per catturare illegittimamente stranieri perché forniscano informazioni, anche sotto tortura). Le violazioni del diritto internazionale erano limitate e comunque dirette a permettere che i presunti terroristi venissero processati in America. Inoltre, in vari casi Washington ricorse a missili e bombe in risposta ad attentati terroristici: ma quegli attacchi furono rivolti contro Stati, colpevoli secondo Washington di ospitare nel proprio territorio organizzazioni terroristiche: nel 1986 gli Usa bombardarono la Libia per l’attentato alla discoteca di Berlino; nel 1993 Clinton fece inviare missili contro Bagdad per punire l’Iraq di aver preparato un attentato contro Bush padre. Si era già in notevole misura al di fuori del diritto internazionale, ma almeno l’azione era interstatuale, cioè rivolta contro Stati come tali, e non volta a soppiantare completamente la "risposta penale".
La svolta si ebbe nel 1998, quando, a seguito degli attentati contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania, Clinton autorizzò l’invio di missili contro terroristi in Sudan e in Afghanistan. Gli Usa si trasformarono così in gendarmi planetari, che ritengono di intervenire dovunque nel mondo, uccidendo terroristi o distruggendone le basi. In Sudan venne colpita una fabbrica che secondo Washington produceva armi chimiche (e invece sembra producesse solo farmaci); in Afghanistan si sperava di uccidere Bin Laden (che invece la fece franca). A partire da allora l’azione violenta, volta sic et simpliciter all’uccisione, in qualsiasi parte del mondo, di coloro che Washington considera pericolosi terroristi, si sostituisce del tutto alla "risposta penale". La debolissima protesta degli Stati contro gli attacchi americani del 1998, e poi gli attentati dell’11 settembre 2001, spiegano in certa misura come gli Usa oggi si ritengano legittimati ad agire contro i terroristi all’estero, al di fuori dei canali della giustizia e del diritto internazionale.
L’unico modo per cercare di indurre Washington a rientrare nei canali della "risposta penale" è quello di protestare con forza – come ha fatto D’Alema – contro questa pericolosa deriva, nella speranza che si torni al multilateralismo, il mezzo migliore per cercare anche soluzioni politiche al grave problema del terrorismo.