L'archistar – intervistato da Teresa Monestiroli - sviluppa a modo suo il tema della densità, da molti anche coerentemente accoppiato a quello della sostenibilità: lui fa il suo mestiere, e noi? La Repubblica Milano, 6 novembre 2013, postilla (f.b.)
«Se Milano vuole crescere in maniera intelligente, deve farlo sviluppandosi su se stessa, in altezza. Le grandi città hanno solo due strade per crescere: espandersi in orizzontale o salire in verticale. La seconda è l’unica sostenibile ». Cesar Pelli, architetto argentino trapiantato negli Stati Uniti che a Milano firma per Hines il masterplan di Porta Nuova e la torre di Unicredit, apre oggi il ciclo di incontri “MI/arch” organizzato dal Politecnico in occasione dei suoi 150 anni. La sua lezione (in Triennale alle 18) partirà dal progetto di Porta Nuova per estendere la riflessione su Milano, città che l’architetto ultraottantenne famoso per le torri costruite in tutto il mondo (tra cui le Petronas Tower in Malaysia) ama in particolare, «perché sembra molto vivibile. Firenze e Venezia sono sicuramente più interessanti da visitare per un turista, ma se dovessi vivere in Italia non avrei dubbi: sceglierei Milano, unica città del XXI secolo».
Si riferisce ai grandi progetti di trasformazione urbana degli ultimi anni?«Da quando frequento Milano per il progetto di Porta Nuova ho visto la città cambiare in meglio, soprattutto le aree intorno a Garibaldi. Questo è un sintomo di grande vitalità».
Eppure gli interventi urbanistici più importanti, da Porta Nuova a Citylife, hanno sollevato diverse polemiche, generando un acceso dibattito sull’opportunità di costruire grattacieli a Milano.«Essere contrari ai grattacieli significa essere contrari alla crescita. Perché una città che si sviluppa in orizzontale è una città che mangia il territorio circostanze, che ruba aree verdi alla collettività, che costruisce nuove infrastrutture, che aumenta le auto in circolazione. La crescita in verticale è più sostenibile: l’ascensore è il mezzo di trasporto più ecologico che esista».
Anche la sua Unicredit Tower, simbolo della nuova Milano, ha diviso la città. Nonostante sia diventata in fretta parte del tessuto urbano, alcuni critici l’hanno definita “un esempio di manierismo tardomodernistico”.«La sua forma è funzionale alla piazza sottostante. Ho sempre pensato che fosse più importante la parte pubblica di quella privata. In questo caso sono tre edifici che salgono insieme, in maniera circolare, per creare uno spazio pubblico al centro, pensati per delinearlo e in un certo senso difenderlo. Ho aggiunto la spirale per rendere l’edificio un riferimento visibile da ogni punto della città. Quello che amo di più di questa torre è che segna il territorio».
D’altronde è il grattacielo più alto di Milano.«Non è un grattacielo, almeno non secondo la mia accezione, che ammetto non essere condivisa da molti. Un grattacielo è un edificio molto specifico. Prima di tutto deve essere molto più alto degli edifici che lo circondano, poi ha bisogno di avere una linea verticale molto definita, una sorta di retta immaginaria che collega la terra al cielo, che mi piace chiamare “axis mundi”. Il Chrysler di New York è un esempio molto chiaro di questo modello, così come le Petronas Tower. Un vero grattacielo non sarebbe stato appropriato per Porta Nuova».
Perché?«Quello che abbiamo voluto creare non è un punto, ma un piano urbanistico che si connettesse con la città esistente. Avrei potuto concentrare tutte le volumetrie dei tre edifici in una torre sola, più alta, ma non sarebbe stato efficace per il tipo di progetto che stavamo realizzando. Quello che abbiamo creato è molto più fresco e innovativo di un grattacielo».
Fra qualche anno Milano avrà altre tre torri a Citylife firmate da Libeskind, Hadid e Isozaki. Ha visto i progetti? Che cosa ne pensa?«Sono scenografiche, icone dalle forme inusuali pensate soprattutto per finire sui giornali».
Che cosa manca a Milano per essere una grande città europea?«Soprattutto gli spazi all’aperto. Ci sono piazze bellissime usate solamente come luoghi di attraversamento dove nessuno si ferma. Eppure la velocità con cui Milano si è appropriata di piazza Gae Aulenti dimostra la voglia di avere spazi all’aperto da vivere».
postilla
Non è affatto curioso che sia proprio uno di quelli troppo spesso accusati di essere i “colpevoli” di certo degrado urbano, ne denunci uno degli aspetti più vistosi: la carenza e scarsa qualità degli spazi pubblici. Piuttosto è l'accusa contro gli archistar a sbagliare bersaglio: manca un'idea di città forte e condivisa, e la si delega vuoi a questi abili evocatori di immaginario, vuoi ad altri evocatori di mitici passati, tradizioni, sempre sfumati nei toni della nostalgia. Entrambe, idee che poi trovano pochi riscontri nella realtà, da costruirsi invece giorno per giorno, anche ponendone le basi in strategie di lungo periodo. Per esempio, la Milano che tanto piace a Cesar Pelli, quella del quartiere su cui lui e il suo studio hanno avvitato alcuni edifici e spazi (non è vero che abbiano progettato un quartiere, quella è strategia di comunicazione), non si stacca molto dal modello novecentesco in cui il rapporto fra densità e spazio aperto è scandito esclusivamente dalle grandi arterie stradali, anche se nel caso specifico esse vengono molto costosamente scavalcate da verde e percorsi. Ma non è certo scopando la città autocentrica sotto questo mega-tappeto, che si risolve il problema. E neppure delegando qualunque responsabilità alla discrezione di progettisti e costruttori: non è il loro mestiere (f.b.)