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Anna Minton
Il fallimento delle Olimpiadi nel segno del privato
5 Febbraio 2012
Spazio pubblico
La studiosa dei disastri della privatizzazione dello spazio sul tema delle economie da Evento, con notizie al limite dell’incredibile. The Independent, 2 febbraio 2012 (f.b.)

Titolo originale: The whole economics of the Olympics project have failed absolutely - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Si potrebbero scrivere parecchi libri sull’andazzo delle Olimpiadi. C’è una quantità sterminata di cose da dire a proposito del Comitato Olimpico Internazionale e di come funziona. E anche parecchio più in generale sull’evento su cui varrebbe la pena di approfondire davvero. Io mi sono occupata delle trasformazioni urbane. Non avevo alcun motivo particolare per occuparmi dell’evento sportivo, ma la cosa ha iniziato a interessarmi quando ho capito che era l’occasione di cambiare radicalmente una enorme porzione della città. Un’altra enorme fetta di tessuto urbano, e ancora col medesimo metodo del privato [come altre, i Docklands ad esempio, di cui ho parlato nel mio libro Ground Control].

Secondo i politici britannici quella era una enorme potenziale riqualificazione urbana. Ma quando si parla di riqualificazione in questo paese si intende in realtà trasformare e segregare enormi zone della città. Si è cominciato coi Docklands e pare adesso siamo arrivati a Stratford City. Non credo che si siano spiegate con sufficiente chiarezza le questioni [che stanno dietro privatizzazione e riqualificazione]. Non è un ambito dove si gioca alla pari. Nessuno ha mai detto che ci saranno perdite in termini di superfici pubbliche, certo si ottiene un parco, ma si tratta di un parco totalmente privato. Non è uno spazio democratico. Cose di cui non si discute mai chiaramente.

L’associazione London Citizens chiede più informazioni su questa carenza democratica [ad esempio non si sa a chi è demandata la gestione del quartiere olimpico dopo i giochi]. E le cosiddette consultazioni pubbliche, che assomigliano molto di più a una mostra itinerante dei progetti, di fatto non sono per nulla occasioni di discussione sul piano. Risulta davvero difficile arrivare al punto. Bisogna capire tante cose, andare oltre le espressioni gergali di certi pianificatori. Il modo in cui queste cose sono decise e proposte sul mercato fa sì che non si capisca mai bene cosa sta accadendo. Succede sempre, ovunque, quando si tratta di riqualificazione urbana.

L’aspetto più scioccante [se guardiamo alla circoscrizione amministrativa che ospita le Olimpiadi, Newham] è quello della casa. Mi sono interessata di Newham proprio perché volevo verificare quelle promesse di case economiche, a fronte della realtà in un contesto di generali tagli al settore. Ho girato per Newham restando totalmente sconvolta dalla situazione abitativa. Che resta del tutto invisibile. Si guarda una casa dal di fuori e tutto pare a posto. Niente fa capire che in realtà lì dentro ci sono 20-30 uomini che dormono in due in letti a castello, in condizioni orribili, con umido e muffa sulle pareti. All’associazione Shelter mi hanno addirittura raccontato che uno dei loro assistiti dormiva in un frigorifero industriale, e tutto resta completamente invisibile. Non appare evidente, come fosse un ghetto, una baraccopoli, niente di tutto questo. Sta nascosto dietro a quanto ci appare come un edificio normalissimo. Ecco qual è la situazione: condizioni in tutto e per tutto da terzo mondo.

Ma tutta la vicenda delle Olimpiadi è piena di aspetti scioccanti. Mi ha colpito il documento di impegno etico [siglato prima dei giochi ma non riconosciuto poi dalla Olympic Delivery Authority sulla base della sua istituzione solo successiva alla firma] del tutto ignorato per quelli che davvero paiono stupidi cavilli legali. Dov’è finito lo spirito olimpico?. Sparito l’atteggiamento dei grandi eventi nazionali del passato. Il motivo – non si tratta proprio di qualcosa di nebuloso – sta nelle leggi. Abbiamo perso del tutto l’idea del bene pubblico da quando nel 2004 essa è stata in silenzio sostituita dalla [necessità] economia. Una cosa già successa negli Usa, e che lì ha provocato una enorme reazione nazionale, titoli di prima pagina. Qui niente. Neppure nel dibattito sul localismo è riemerso il concetto di bene pubblico.

Ed è decollato il turbocapitalismo. Se al centro ci fosse stato il bene pubblico l’ente di gestione del dopo-Olmpiadi non avrebbe potuto dire che l’offerta del Wellcome Trust [1,2 miliardi di euro per trasformare il parco olimpico in un polo scientifico e tecnologico] non era vantaggiosa. Si tratta evidentemente di un riuso molto più nell’interesse collettivo della proposta invece scelta [il parco ceduto a pezzi, un po’ alla famiglia reale del Qatar, altre parti a costruttori privati]. Il meccanismo economico complessivo del progetto olimpico non ha funzionato per nulla, e quando arriva quell’offerta di 1,2 miliardi di euro loro rispondono: “Ma noi possiamo guadagnarci molto di più”. Proprio l’idea di ritornare in possesso di quello spazio, di fronte alla prospettiva di vendere al miglior offerente a pezzi il parco olimpico, è quello che distingue la prospettiva, il tipo di mentalità che ha fatto respingere l’offerta Wellcome Trust. Verifico spesso come il pubblico concordi con me [sui pericoli di un controllo privato dello spazio pubblico], ma è difficile capire tutte le conseguenze impreviste di una serie di scelte che hanno costruito questo contesto, se non si indaga davvero a fondo. Ed è soprattutto necessario discutere, dibattere il più possibile. Il vero problema è che chi comanda non considera affatto questi aspetti.

Chiusi rispetto all’esterno [recinti, o telecamere a circuito chiuso] si finisce per indebolire le interazioni dirette. E uno spazio si fa meno sicuro, sono necessarie altre misure del genere, e aumentano ancora paura e sospetto. Le cosiddette soluzioni messe in campo negli ultimi dieci anni sono diventate il vero problema. Ci fidiamo così poco dei rapporti umani che abbiamo tentato di risolverli con tecnologie in grado di dirci cosa fare, come comportarci. L’interazione umana al massimo sono azioni punitive. Avevamo una serie di figure rappresentanti glia spetti benevoli dell’autorità, dai conducenti di autobus ai guardaparco. Dotate di autorità anche se non potevano dar multe, né indossavano uniformi autoritarie. Nel nome dell’efficienza li abbiamo eliminati, sostituendoli con una falange di guardie private. Costruendo un modo assai diverso.

(naturalmente, per chi non l’avesse già fatto, l’invito è a leggere anche gli altri contributi di Anna Minton su eddyburg.it e mall.lampnet.org)

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