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Eugenio Scalfari
Il dramma di una guerra insensata
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Il commento del fondatore di la Repubblica (6 marzo 2005) ai drammatici eventi di Bagdad: dalle "professionalità" imperfette (tutte uguali?) alla crisi della democrazia

«Questo è l´Iraq, questa è Bagdad, questa è la guerra».

Così Bernardo Valli ha concluso ieri il suo commento sulla drammatica sequenza per metà gioiosa e per metà luttuosissima che ha scandito tempi ed eventi nel giorno della liberazione di Giuliana Sgrena.

Rivediamola ancora quella sequenza, oggi che le informazioni sono un poco più ampie e tuttavia ancora incomplete e riprendiamola fin dall´inizio della vicenda, cercando di spogliarci il più possibile dalle troppe frasi fatte e dall´inevitabile retorica che le accompagna. A cominciare dalla parola «professionalità» che è stata sparsa a piene mani su tutti i protagonisti.

L´inizio è la visita della Sgrena e dei suoi due accompagnatori al recinto dei rifugiati di Falluja con al centro una moschea, dove sono da mesi attendati centinaia di iracheni scampati alla battaglia che ha semidistrutto quella città che era diventata la piazzaforte della guerriglia baatista e del terrorismo di Al Qaeda. Tra quei rifugiati ce n´è di tutte le specie: famiglie che lasciarono Falluja nell´imminenza dell´attacco americano, famiglie rimaste intrappolate nella battaglia e poi scappate alla spicciolata mentre tra le macerie ancora si combatteva, guerriglieri confusi tra i civili, tagliagole e bande di criminali comuni in cerca di prede.

Per i giornalisti coscienziosi che vogliano documentare la realtà guardandola con i propri occhi una visita a quell´accampamento di disperati è quasi un dovere professionale e la Sgrena è una di loro.

Ma è altrettanto professionale sostarvi non un minuto di più di quanto sia strettamente necessario per vedere, interrogare, prender nota e andarsene. Non più di mezz´ora al massimo dicono gli esperti. Prima che i criminali in cerca di prede possano avvertire i loro complici che stanno fuori dal recinto e siano in grado di preparare il colpo e rapire l´incauto visitatore.

Giuliana Sgrena è rimasta in quel caotico e rischiosissimo accampamento per oltre quattro ore. E´ entrata nella moschea, ha girato per l´attendamento, è passata e ripassata per quei sentieri. Molti l´hanno vista, alcuni ne hanno soppesato il valore di scambio e ne hanno informato i loro complici i quali hanno avuto tutto il tempo di organizzare l´agguato indossando financo divise militari e posteggiando giusto fuori dal cancello dell´accampamento.

Lì l´hanno presa senza nessuna difficoltà e di lì è cominciato il suo calvario che ha emozionato e mobilitato l´intera nostra nazione senza distinzioni di parte: pacifisti e interventisti, governo e opposizione, concludendosi tragicamente dopo un mese con la morte del suo liberatore e il ferimento della stessa Sgrena. Poteva perfino andar peggio, potevano restare uccisi tutti sotto i colpi del «fuoco amico», a settecento metri di distanza dall´aeroporto di Bagdad.

Forse la giornalista del «Manifesto» pensava che le sue idee di pacifista a oltranza le fornissero una sorta di salvacondotto; non sapeva quel che avrebbe dovuto invece sapere e cioè che quelle sue caratteristiche «politiche» accrescevano se mai il suo valore di scambio. La vicenda che ne è seguita ha dunque purtroppo inizio con un deficit di professionalità.

Ma purtroppo c´è un altro deficit di professionalità che chiude la tragica sequenza: quella corsa in auto al buio, sotto la pioggia, fino allo scontro fatale vicino alla base americana «Victory» a meno di un chilometro di distanza dal recinto dell´aeroporto.

Bernardo Valli ha descritto con scrupolo la pericolosità delle due strade che collegano la capitale con l´aeroporto internazionale. E´ pericoloso percorrerle di giorno, ma è assolutamente sconsigliabile avventurarvisi di notte. I rischi, gli agguati, gli errori, rendono quelle strade praticamente impercorribili nelle ore notturne. Una professionalità affinata dall´esperienza dei luoghi avrebbe consigliato di passare la notte nella «green zone» di Bagdad, meglio se ospiti dell´ambasciata italiana, e solo al mattino raggiungere l´aeroporto con le necessarie cautele. Lo avrebbero dovuto sapere i dirigenti del Sismi a Roma e gli agenti del servizio a Bagdad. E se da Roma ci fossero state sollecitazioni politiche a fare in fretta e a partire subito, gli operatori a Bagdad avrebbero dovuto rifiutarsi per tutelare la vita della persona liberata oltre che la propria e l´esito della missione loro affidata. Purtroppo così non è stato. Non sapremo mai il tenore dei colloqui tra Roma e Bagdad sulle modalità della partenza, neppure la Sgrena può esserne al corrente, ma questo è certamente un punto-chiave di tutta la sequenza.

Infine il drammatico e inspiegabile paradosso finale da parte americana. Si è saputo ieri che l´automobile che portava la Sgrena verso la salvezza non correva affatto all´impazzata ma procedeva a velocità ridotta; si è saputo anche che durante l´avvicinamento i militari americani erano stati avvertiti dell´auto italiana in transito. Come mai l´avviso non è stato fornito o è stato disatteso proprio vicino all´aeroporto? Ecco un altro punto oscuro che non sarà mai chiarito, ammesso che chiarirlo possa avere un qualunque effetto sulle vittime di questa drammatica avventura.

E´ difficile, anzi impossibile immaginarsi nei panni dei familiari di Nicola Calipari e anche nei panni di Giuliana Sgrena così terribilmente provata da tanti giorni di prigionia e soprattutto dall´aver visto morire il suo liberatore riverso su di lei per fare del proprio corpo lo scudo del suo.

Il tempo cancella di solito le più crudeli ferite, ma questa è di quelle che non si scordano da chi ne è stato partecipe e movente. Una ragione di più per tutti noi di voler bene all´ «uccellino ferito» nel corpo e nell´anima e ai familiari di Nicola che l´hanno perduto per una sequenza di errori sboccati in un dramma insensato.

* * *

«Questa è Bagdad, questa è la guerra». Non c´era bisogno dell´episodio Sgrena-Calipari per saperlo, ma esso ne è la tragica conferma. Non è questione di pro-americani e di anti-americani, etichette improprie e desuete. E non è questione se mantenere o ritirare le truppe italiane da Nassiriya. Nassiriya somiglia sempre di più alla fortezza nel deserto dei Tartari: un ridotto blindato da dove non si esce, che non serve a nulla, che ci sia o non ci sia.

Serve soltanto a mantenere la benevolenza di Bush nei confronti di Berlusconi, punto e basta. L´Italia in quanto nazione non ne ritrae né vantaggi né svantaggi se non il costo finanziario non indifferente di mantenere in quel deserto tremila soldati e sul rischio della vita cui ciascuno di loro è comunque esposto.

Una cosa è chiara: la guerra continua, l´instabilità irachena è evidente, l´autogoverno di quel paese non è affatto a portata di mano, la pacificazione ancora meno.

Quanto agli effetti positivi della guerra irachena nella regione mesopotamica e nel Medio Oriente, gli effetti sul Libano, sull´Egitto, sull´Arabia Saudita, in Siria, in Iran, penso che dovremmo essere molto cauti a cogliere nessi tra fatti disgiunti. Le speranze e i passi avanti nella situazione palestinese dipendono principalmente dalla morte di Arafat e dal coraggio politico di Sharon da un lato e di Abu Mazen dall´altro. La rivoluzione dei cedri in Libano covava da tempo, molto prima della guerra irachena, ma resta da vedere se l´unità tra cristiani, drusi, laici, sunniti, sciiti, resterà quando (speriamo presto) l´occupazione siriana cesserà.

Sulla conversione democratica di Mubarak c´è di che dubitare. Concedere elezioni presidenziali con più candidati è formalmente un passo avanti, ma pensare che il raìs egiziano possa essere sconfitto o meglio che si lasci sconfiggere da un libero voto popolare è una scommessa da dare a cento contro uno.

Certo, otto milioni di iracheni hanno votato nonostante le minacce e le intimidazioni. Hanno votato gli sciiti e i curdi. Questi ultimi per consolidare la loro indipendenza; gli sciiti seguendo la volontà della loro massima autorità religiosa e di mostrare con il voto di essere usciti dal vassallaggio esercitato ai loro danni per quarant´anni dalla minoranza sunnita. La quale, essendo predominante nelle province centrali e più popolose del paese e utilizzando la guerriglia a proprio vantaggio, aspetta di vedere le condizioni che le saranno offerte in termini di garanzie, con dominio del potere, quote petrolifere a loro beneficio.

I terroristi dal canto loro massacrano la popolazione sciita sperando che reagisca con pari violenza scatenando una guerra civile generale. Finora Al Sistani è riuscito a trattenere la sua gente da una contro-insorgenza. Se questa linea reggerà si potrà sperare in un´evoluzione pacificatrice che ha come sbocco uno Stato guidato dai coranici di Najaf e di Kerbala, con propaggini iraniane inevitabili.

Lo ripeto, l´anti-americanismo non c´entra. Ma c´è un punto fermo da considerare e lo ha esposto con grande chiarezza, proprio su queste pagine, lo storico inglese Timothy Garton Ash: di nuove guerre come quella irachena l´Europa non vorrà mai sentir parlare. Chiamatela lungimiranza o chiamatela viltà, cambia ben poco. Il dato è quello.

Le guerre producono effetti non valutabili preventivamente.

Effetti innovatori, distruttivi, ricostruttivi. Quella del 1914 sfasciò quattro imperi, quello degli Asburgo, quello germanico, quello russo, quello turco. Provocò la nascita del nazismo, del comunismo leninista e staliniano, del fascismo e del franchismo. E pose le premesse per il sorgere dell´impero americano.

Quella del ´39 distrusse il nazismo e l´impero giapponese, avviò la fine dell´impero britannico, di quello francese e delle altre nazioni europee coloniali; consentì lo sviluppo socialdemocratico dell´Europa occidentale e per conseguenza l´evoluzione democratica del capitalismo.

La guerra fredda si è conclusa con l´implosione del regime sovietico e l´espandersi incontrastato del pensiero unico e della democrazia imperiale degli Usa.

Ora siamo alla quarta tappa della storia contemporanea. Ha scritto qualcuno con paradossale ironia che il miglior agente di questa evoluzione storica è stato Bin Laden. E´ un paradosso che rientra perfettamente nell´eterogenesi dei fini. Ma nessuno sa dove ci porterà. Io non credo affatto che ci porterà in un aumento di democrazia nel mondo. Al contrario. Si vedono per ora riflussi antidemocratici e aumento di forza del potere economico rispetto alla democrazia politica proprio nei siti di più antica tradizione liberaldemocratica.

Queste comunque sono opinioni e non fatti. I fatti sono, per quanto riguarda l´Iraq, che la guerra continua ed è una guerra non solo crudele ma stupida. Da quando è cominciata fino ad oggi. E chissà ancora per quanto.

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