La vicenda della Innse di Lambrate dimostra quali sviluppi drammatici possono presentarsi quando un numero crescente di persone vede violato a proprio danno un fondamentale diritto umano. E cioè il diritto ad una ragionevole sicurezza socio-economica. È l’esperienza di chi perde il lavoro senza averne alcuna responsabilità. Chi sia costretto a tale esperienza è colto anzitutto dall’angoscia per l’immediato futuro. Come farò, si chiede, a pagare le rate del mutuo e dell’auto, le cure odontoiatriche per i figli più piccoli, il costo della scuola superiore o dell’università per i più grandi. In secondo luogo la stessa persona si sente vittima di una grave ingiustizia, di un inganno che qualcuno ha ordito alle sue spalle e che improvvisamente si rivela come tale. Quando si colpisce il diritto a una giusta sicurezza socio-economica, sono queste le emozioni che si diffondono come un incendio boschivo sia tra i diretti interessati, sia tra coloro - molto più numerosi - che pensano domani potrebbe toccare a me.
Il punto critico non è quindi se i lavoratori della Innse abbiano esagerato o no nel salire su una gru per impedire lo smantellamento dei macchinari da parte del nuovo proprietario, ovvero se non avrebbero potuto trovare forme di protesta o di contrattazione meno trasgressive. Il punto è se il nostro paese possa ancora permettersi a lungo l’assenza di una politica della sicurezza socio-economica.
Dire che una simile politica non esiste da almeno vent’anni significa in verità dire troppo. Le politiche del lavoro di tale periodo non ignoravano certo la questione.
Semplicemente partivano dall’assunto, rivelatosi poi totalmente sbagliato, che in una economia dinamica, con elevati tassi di sviluppo, la sicurezza sarebbe stata assicurata agevolmente dal gran numero di veloci compensazioni che si svolgono sul mercato del lavoro: chi perda il lavoro il venerdì, si postulava, ne troverà sicuramente un altro il lunedì successivo. La moltiplicazione infinita delle occupazioni flessibili è stata fondata precisamente su tale assunto, che non ha alcuna base nemmeno negli Stati Uniti. Figuriamoci in Italia.
Al presente il problema, se possibile, si è ulteriormente complicato. Non soltanto l’economia crea nuovi posti di lavoro a un ritmo molto basso, ma è possibile che per un lungo periodo ne crei assai meno di quanti se ne stanno perdendo. E per accrescere la sicurezza dei milioni di individui che l’hanno già persa, o che temono di perderla tra breve, non basteranno né la ripresa - posto che questa arrivi nel 2010, o nel 2011, o ancora dopo - né un potenziamento dei cosiddetti ammortizzatori sociali. Sarebbero assolutamente necessarie politiche industriali realmente innovative rispetto ai modelli precedenti, che in altri paesi a partire dagli Stati Uniti, si cominciano a intravedere. Ci vorrebbero inoltre interventi radicali di sostegno al reddito, quale sarebbe ad esempio un reddito di base o reddito di cittadinanza che sia, nonché una redistribuzione del lavoro disponibile che non abbia paura di quello che fu in passato uno slogan - lavorare meno per lavorare tutti - ma che potrebbe rivelarsi come una ricetta indispensabile per il prossimo futuro. Bisognerebbe anche impedire che operazioni apparentemente razionali sotto il profilo industriale come il trasferimento di rami d’azienda, la vendita in blocco di imprese piccole e medie, o la cessione di impianti a terzi, non fossero usati semplicemente per licenziare d’un colpo centinaia di lavoratori senza giusta causa.
Per i lavoratori della Innse una soluzione dovrà essere comunque trovata in tempi rapidi. Senza ignorare che le imprese piccole e medie in difficoltà, da qui all’autunno, sono e saranno parecchie migliaia. Tuttavia a quei lavoratori va riconosciuto in ogni caso il merito di aver attirato l’attenzione, con il loro comportamento estremo, sulla necessità di riprendere a ragionare in merito all’economia e al lavoro come a strumenti che devono essere impiegati primariamente per assicurare al maggior numero di persone il diritto a un livello accettabile di sicurezza socio-economica. Non sarebbe nemmeno una novità.
Per almeno trent’anni, tra gli anni ‘50 e gli anni ‘80, quello che fu definito il compromesso capitale-lavoro funzionò efficacemente proprio nel produrre e diffondere in Europa tale forma essenziale di sicurezza e di diritto.