Il manifesto, 12 febbraio 2016 (m.p.r.)
Avrei potuto fare la fine di Giulio Regeni quando mi arrestarono in Cile dopo il colpo di stato, tanti anni fa? Per un po’ di giorni l’Ambasciata non mi trovava né aveva conferma dell’arresto. Qualche europeo e qualche nordamericano vennero uccisi. Alcuni corpi non vennero mai trovati. Nel mio caso la notizia uscì quasi subito in Italia e ci furono sia le pressioni movimentiste di Lotta Continua («ridateci il nostro compagno», «collabora col nostro quotidiano») che quelle istituzionali diplomatiche richieste dalla mia famiglia.
Ci fu anche il rischio di uno scontro tra le due pressioni, perché Lotta Continua, accanto alle invocazioni per la mia liberazione, aprì una sottoscrizione per comprare Armi alla Resistenza, mentre la tesi difensiva mia e dell’ambasciata era che io ero solo un turista! Finì bene, non venni neanche torturato: per le pressioni diplomatiche e politiche ma forse anche perché nessuno ce l’aveva con me, non volevano far vittime europee. E un po’ anche per caso, perché il caso conta non solo nelle guerre ma anche nelle ondate di terrore repressivo. Le macchine del terrore non sono del tutto precise e logiche, servono appunto a terrorizzare. Mi scuso per questo attimo di autobiografismo, mi rendo conto che la vicenda di Giulio è diversa, non solo perché è finita in modo atroce ma perché molto probabilmente è anche cominciata in modo diverso.
Io ero stato arrestato da militari in divisa e portato allo Stadio (campo di concentramento), lui è stato sequestrato da non si sa bene chi. Tanto che c’è anche chi pensa (pochi, ma ci sono) che sia stato scambiato per una spia anti-islamista, non fatto fuori dal regime. Tornando a quella che sembra invece l’ipotesi più probabile, quella di un omicidio in qualche modo di stato, c’è da chiedersi se lo potevamo evitare. C’è chi sostiene che l’opinione pubblica e di conseguenza i giornali e di conseguenza il governo han fatto poche e tardive pressioni sul regime egiziano.Un’ipotesi inquietante.
Sento il bisogno di interrogare chi conosce questi meccanismi meglio di me.
Ed ecco la risposta di Roberto Toscano, l’allora giovane diplomatico a Santiago del Cile che si occupò del mio arresto, poi ambasciatore in vari paesi. «Sembra strano sostenerlo ma anche nel campo della repressione e delle dittature ci possono essere gradi diversi non solo per quanto riguarda l’orrore, ma anche in relazione alla possibilità di fare qualcosa. Voglio dire che, per quanto il golpe cileno fosse brutale, come diplomatico avevo la possibilità di muovermi sapendo dove andare e cosa chiedere per affrontare un caso come il tuo.
Quando sono andato al Ministero degli esteri cileno per denunciare la tua scomparsa mi hanno accompagnato in un ufficio dove una gentile impiegata ha sfogliato in mia presenza dei tabulati IBM: «Hutter…Hutter..ecco! è detenuto allo Stadio Nazionale». La storia successiva la sai anche tu: la visita, il pacchetto con le mutande di ricambio, il rilascio dopo qualche giorno. Certo, c’era il fatto che non ce l’avevano particolarmente con te. Sapevano che eri un sovversivo, naturalmente, ma non particolarmente pericoloso. Ma c’era anche, dietro questo modo di operare, il monopolio militare della repressione, senza spazio per gli squadroni della morte free-lance.
E c’era anche una preoccupazione per il mondo esterno, e per i rapporti con l’Italia. Trasportiamo tutto questo all’Egitto di oggi, e cominceremo a renderci conto del caso Giulio e delle sue difficoltà per chi vuole agire. Uno stato meno strutturato; il probabile ricorso a squadre di delinquenti — collaboratori; la fiducia (e forse questo è l’elemento più drammatico) che comunque sia l’Egitto è troppo importante per la sicurezza e l’economia per essere trattato con la durezza che altrimenti meriterebbe. Mi sembra che l’ambasciata si sia mossa tempestivamente.
(E chi ti parla, come sai, non è mai stato un diplomatico integrista-corporativo: quando c’è da criticare non mi tiro indietro). Il problema è più di fondo, è l’ indulgenza che siamo disposti a dimostrare per ragioni di “realismo” nei confronti di regimi che violano brutalmente e sistematicamente i diritti umani. Temo che se non fosse capitata questa tragedia, cioè il massacro di un italiano, l’insensibilità nei confronti di quello che accade in Egitto sarebbe da noi generalizzata. Ecco un altro elemento di differenza dal Cile: la sensibilità di un’Italia dove esisteva ancora la politica, e soprattutto la sinistra!».
Ecco. La tortura non è mai giustificabile. In nome della lotta al terrorismo, insomma per paura del terrorismo islamico, troppo spesso si abbassa la guardia sui diritti fondamentali. E si sottovaluta, noi, la necessità e possibilità di incidere almeno sui paesi del Mediterraneo. Vorrei che l’attenzione alla tragica fine di Giulio segni una inversione di tendenza. Non vorrei invece che un inconscio voyeurismo dell’orrore porti a sottovalutare altre violenze di stato solo perché non arrivano a quei livelli.
Sto seguendo alcuni giovani tunisini vittime di pesante bullismo omofobico nel carcere di Kairouan. Intervenire per i diritti umani in Tunisia è molto meno difficile che in Egitto, ma può esser utile per dare un buon esempio in tutto il mondo arabo. La tragedia di Giulio — e le ripercussioni che ha avuto anche al Cairo- deve spingerci ad alzare le pretese, non a rassegnarci. Mi immagino di proporre un articolo sulla denuncia dei gay contro le violenze nelle carceri tunisine e un caporedattore (immaginario) che mi risponda: «Non è interessante, cosa vuoi che sia dopo il caso di Giulio?» No, non è così. Al giovane Jihed di Tunisi, ancora frastornato dalle botte in carcere, e che nei prossimi giorni affronterà (a piede libero, adesso) l’appello per «atti omosessuali» vorrei invece dire che dopo quel che è successo a Giulio l’Italia e l’Europa sono più sensibili ed esigenti anche per lui, al suo fianco.