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Paolo Leon
Il «divide et impera» di Marchionne porta solo al conflitto
30 Agosto 2010
Articoli del 2010
Un’analisi pacata degli errori del capo della maggiore azienda italiana, dal punto di vista di un’economista pensante. L’Unità, 29 agosto 2010

L’ad preferisce un «sindacato partecipativo» ad una controparte Disconosce così che i soggetti in causa non possiedono pari forza e che i lavoratori hanno bisogno di chi difende i loro diritti.

Mi ha colpito una recente dichiarazione di Marchionne: «un sistema corretto di relazioni industriali deve garantire che gli accordi stipulati vengano applicati». Se fosse così, però, non potrebbe minacciare la fuoriuscita dal contratto nazionale, che è appunto un accordo stipulato, come lo è il patto associativo della Confindustria, dalla quale vorrebbe andarsene. C’è odore di rottura anche nel caso si voglia un contratto per l’auto, separato dagli altri settori metalmeccanici: divide et impera, un concetto conflittuale piuttosto che contrattuale. Nel leggerne i discorsi e le dichiarazioni, sono molte le contraddizioni. Non ci si può fermare al conflitto tra capitale e lavoro, ci dice, come se questo conflitto, negli ultimi diciassette anni, avesse creato un insopportabile regime in mano al sindacato – quando in realtà la grande debolezza contrattuale dei lavoratori ha generato danni straordinari ai salari e grandi favori ai profitti e alle rendite, insieme ad un imponente e tragico travaso di persone da lavoro stabile a lavoro precario.

Marchionne vorrebbe in fabbrica e negli uffici una rigida disciplina da caserma, ma non sa che ciò rende burocratica e gerarchica l’organizzazione dell’azienda, aumentandone, allo stesso tempo, la fragilità: lo si vede dal fatto che non ha intenzione di pagare lo scotto della maggior disciplina, in termini di un reddito decente, di stabilità dell’occupazione (invece di ricorrere alla cassa integrazione quando non è capace di vendere), di maggiore qualità del lavoro, e perciò non ha in mente condizioni contrattuali, ma semplici diktat fondati sulla minaccia della chiusura degli impianti.

Pensa che la globalizzazione imponga che salari e condizioni di lavoro dei paesi avanzati si adeguino a quelli dei paesi in via di sviluppo, e non si rende conto che, al contrario, si tratta di far progredire le condizioni di questi lavoratori portandole al nostro livello, altrimenti non venderà mai le sue automobili in quei paesi – se lo aveva capito il pessimo Henry Ford, lo può capire chiunque abbia avuto una sufficiente educazione storica.

L’Amministratore Delegato preferisce un sindacato «partecipativo» ad un sindacato che sia la sua controparte: disconosce così che le parti nel contratto di lavoro non hanno pari forza, e che i lavoratori hanno bisogno di un sostegno, attraverso il sindacato, o, peggio, vuole proprio creare una situazione nella quale il lavoratore riconosca di essere debole e si comporti di conseguenza. Molti si sono chiesti perché Marchionne abbia improvvisamente intrapreso la strada dello scontro frontale, ed alcuni pensano che voglia mettere con le spalle al muro sindacato e governo, così da potersene andare dalle scomode localizzazioni italiane. Credo invece che, dopo l’avventura americana, e visto che la crisi non sembra aver cambiato i rapporti di forza internazionali, Marchionne guardi ora alla globalizzazione non come un’opportunità di nuovi mercati, di nuovi prodotti e processi, ma come una vera e propria guerra economica, rispetto alla quale è necessaria una «unione sacra» nazionale tra capitale e lavoro.

Non sarebbe la concorrenza, il motore della Fiat, ma una forma di protezionismo (una volta l’avremmo chiamato «dumping sociale») che è oggi richiesta dopo la fine della protezione offerta dagli incentivi statali: perciò il sindacato è chiamato a non sabotare un conflitto più grande di quello tra capitale e lavoro, e dunque non può mettere i bastoni tra le ruote rispetto alle decisioni aziendali – ci si fa intendere che chi offre il petto al nemico straniero è l’azienda, non il lavoratore. Ora, è indubbio che anche il sindacato debba essere parte attiva delle politiche economiche per aumentare la produttività: ma sarebbe senza senso che l’aumento della produttività passasse attraverso la subordinazione della personalità dei lavoratori.

Quell’«unione sacra», infatti, ricorda molto il corporativismo ed è un modo di pensare analogo a quello di Tremonti: risale a prima della rivoluzione francese o a certe elucubrazioni collaborazioniste di Pétain, e dunque non ha nulla di moderno. Del resto, non corrisponde affatto allo spirito della nostra Costituzione, come implicitamente ricordato dal nostro Presidente della Repubblica.❖

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