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Guido Rossi
Il diritto in frantumi
15 Febbraio 2007
Scritti 2005
“Il rapporto fra mercato e diritto, fra il gioco e le sue regole, ripropone il paradosso di Achille e della tartaruga, col secondo (il diritto) rassegnato a inseguire il primo (il mercato) sapendo che non lo raggiungerà mai”. Cap. II del libro Il gioco delle regole, Adelphi, 2006

Il rapporto fra mercato e diritto, fra il gioco e le sue regole, ripropone il paradosso di Achille e della tartaruga, col secondo (il diritto) rassegnato a inseguire il primo (il mercato) sapendo che non lo raggiungerà mai. Il punto nuovo è però che mentre per qualche secolo il diritto è parso accettare questa sua scomodissima condizione, negli ultimi anni sembra avere sostituito alla rassegnazione un iperattivismo fine a se stesso, e a secernere senza soluzione di continuità norme sostanzialmente autoreferenziali, che non incidono sulla realtà sociale né contribuiscono a garantire una ragionevole equità o a tutelare i soggetti giuridici più deboli. È come se la visione che del diritto proponeva Hans Kelsen[1],e che ha di gran lunga dominato tutta la filosofia del capitalismo moderno, avesse perso i connotati di pura speculazione teorica, vestendo i panni della realtà fattuale. Bisognerebbe provare a capire adesso in che modo tutto questo sia potuto accadere.

Per Kelsen, il diritto è l’insieme delle regole che determinano il comportamento umano. E la sanzione presuppone lo Stato, cioè l’unica entità legittimata a giudicare il comportamento umano. La cesura con tutta la tradizione precedente è nettissima. Kelsen infatti esclude, e lo fa con grande rigore, qualunque riferimento a norme non scritte, ai princìpi superiori invocati da Antigone, alle leggi divine, insomma a quello che da secoli la dottrina giuridica aveva chiamato il diritto naturale, cioè quell’insieme di norme generali valide per tutti gli esseri umani, «superiori» a qualsiasi norma scritta dai legislatori. Per quanto radicale, o metafisica, questa concezione del diritto possa apparire ai nostri occhi, non bisogna dimenticare che in un certo senso rappresentava una formazione di compromesso fra idee (e pratiche) della giustizia molto più estreme. Ad Atene esisteva un tribunale, il Pritaneo, che basandosi su una sorta di diritto primitivo giudicava anche gli oggetti inanimati: in caso di incidente, l’oggetto responsabile veniva processato, condannato e distrutto. Nel Medioevo il diritto si estendeva a tutti gli esseri viventi, al punto che gli animali incriminati finivano in appositi tribunali, e venivano giudicati come gli uomini – applicando del resto l’insegnamento del grande giurista romano Ulpiano, secondo il quale il diritto era «quod natura omnia animalia docuit », cioè quel che la natura ha insegnato a tutti gli animali. E gli esempi possibili arrivano ai giorni nostri, e alle recenti modifi- che della costituzione indiana, che sanciscono il diritto alla vita – e alla cura, in caso di malattia, per tutti gli esseri viventi.

L’immagine del diritto proposta da Kelsen è, in partenza, molto più semplice. Le leggi riguardano,appunto, solo ed esclusivamente il comportamento umano, e nient’altro. Neppure i problemi della giustizia, in quanto attengono alla felicità sociale – cioè a un’entità irrazionale, sulla quale è impossibile giungere a conclusioni oggettive – sono, a rigore, problemi di diritto. E quando mai lo fossero, sarebbero problemi di diritto naturale, e non di diritto positivo. Ciò che allora può fare il diritto per la giustizia è solo minacciare la sanzione prevista dal legislatore per alcuni comportamenti. Ed è solo la norma primaria, quella cioè che contiene la sanzione, a qualificare il diritto come ordinamento coercitivo. Le norme secondarie – di pura condotta, ma senza sanzione, come ad esempio «non uccidere» – nulla hanno a che vedere con il diritto.

Il diritto, quindi, discende dalla volontà del legislatore. Questa sua genesi impone la necessità di individuare una norma fondamentale – che Kelsen chiama Grundnorm, o basic rule – su cui fondare la validità delle singole norme. Negli ordinamenti moderni, la Grundnorm altro non è che la costituzione, cioè appunto la norma fondamentale che fissa i princìpi generali, ma prima ancora fonda la legittimità delle norme successive – che verranno poi approvate dai parlamenti, a loro volta legittimati dalle diverse carte costituzionali. E qui la teoria di Kelsen incappa in una prima difficoltà. Ogni costituzione è infatti un atto giuridico, che ha la sua base in situazioni storiche molto precise – a volte in conseguenza di un particolare clima politico, ma più spesso in coincidenza con una rivoluzione. In nessuno di questi due casi (o delle loro possibili varianti) il nuovo ordinamento è figlio dell’ordinamento precedente: a volte è in patente contraddizione con esso, in casi più estremi nasce da istanze apertamente antigiuridiche.

È molto difficile che il diritto segua un andamento armonico. In molti casi ha una genesi «sporca», e nel corso della sua vita utile affronta aporie che nerendono quantomeno opinabile la presunta «purezza ». Le lacune, ad esempio, che non a caso costituiscono la cartina di tornasole per tutte le teorie giuridiche. Come ogni altra cosa sotto il sole, anche le norme sono caduche. Da un certo momento in poi, non coprono più alcune fattispecie, e devono essere abbandonate, modificate o riscritte. Per la jurisprudence americana le lacune sono una finzione, poiché costituiscono semplicemente il momento in cui diritto naturale e diritto positivo tornano a dividersi.

Per un filosofo del diritto americano come Ronald Dworkin, è del tutto ovvio che il diritto naturale intervenga dove quello positivo non può arrivare, mentre per Kelsen questa commistione risulta inaccettabile. In altre parole, non esistono, né possono esistere, princìpi sanzionabili dalla morale, che alla fine si intreccia e confonde con il diritto naturale. In presenza di una lacuna ci si deve comportare nel modo sancito dall’articolo 1 del codice civile svizzero – che non è stato scritto da Kelsen, ma avrebbe potuto esserlo. Secondo tale articolo il giudice deve applicare in primis la legge, e in caso di lacune deve rifarsi alla consuetudine, cioè al comportamento reiterato che una certa collettività ritiene accettabile come precetto. E se neppure la consuetudine è di ausilio, il giudice applicherà la norma che avrebbe dettato qualora avesse rivestito la funzione di legislatore – ampliando così le proprie competenze molto oltre il ruolo di giudicante. Questa norma farebbe rabbrividire sia Montesquieu sia Beccaria. Ma è proprio con questo richiamo al codice civile svizzero che Kelsen si ritrova in palese contraddizione, poiché non è per nulla chiaro a quali fattispecie debba riferirsi il giudice-legislatore. Si inserisce qui prepotente un elemento irrazionale nella costruzione kelseniana, in quanto il legislatoregiudice, che evidentemente non ha alcun supporto dalla Grundnorm, finisce per cadere nella trappola di Dworkin[2],cioè si comporta riferendosi a quei «princìpi» non scritti che rientrano facilmente nell’ambito del diritto naturale e che tutta la teoria tendeva a escludere categoricamente. La risposta per Kelsen, ancora una volta, è nella Grundnorm: deve essere la costituzione – e quindi la Corte Costituzionale – a stabilire se la norma emanata dal legislatore è giusta o ingiusta, e tutte le questioni di volta in volta aperte si riducono, per così dire, a un problema di diritto costituzionale.

Per così dire, appunto. Se sulla carta il meccanismo appare pressoché perfetto, nella prassi rischia di tradursi in una sorta di abuso istituzionalizzato della maggioranza sulla, o sulle, minoranze. Il costituzionalismo chiuso, infatti, non tutela a sufficienza o non tutela affatto i diritti delle minoranze, che da una concezione rigorosamente autoreferenziale del diritto – fondata sull’esclusione di qualsiasi principio «esterno» – risultano letteralmente stritolati. Criticabile in sé, l’autopoiesi o l’autoreferenzialità del diritto diventa difficilmente sostenibile (e gestibile) in un sistema di democrazie allargate come quello in cui viviamo, e dove l’esigenza di rappresentare i diritti di tutti è particolarmente sentita. In realtà uno dei rimedi possibili è, ancora, il ricorso al costituzionalismo, ma a un costituzionalismo aperto, in cui la carta costituzionale diventa da un lato garante dei princìpi fondamentali, quindi dei diritti dei quali la maggioranza non è legittimata a disporre, e, dall’altro, la matrice di ulteriori princìpi in base ai quali definire il limite esterno. Di fatto le costituzioni vanno assumendo, negli Stati moderni, un valore nuovo, quello di difesa del principio di democrazia come impedimento esterno a ogni possibile abuso da parte della maggioranza. Tutto il contrario di quanto pre figurano sia la dottrina di Kelsen sia la maggior partedelle norme che governano l’economia del capitalismo.

E come sempre quando sono in gioco i princìpi, le dicotomie astratte pongono problemi molto concreti, costringendo a scelte spesso tragiche. L’esempio più immediato – tecnicamente – è la pornografia minorile. In questo caso la difesa di un principio (e cioè il diritto dei minori alla tutela) si scontra con quella di un principio opposto, almeno qui: la condanna di ogni tipo di censura. Diventa quindi inevitabile appellarsi a una valutazione esterna, cioè a un principio terzo. Finora in casi del genere ha prevalso il «principio di differenza» enunciato da Rawls, secondo il quale il soggetto più svantaggiato deve sempre e comunque godere di maggiore tutela. Ma nelle ultime sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, ad esempio, sembra prevalere un orientamento molto diverso e preoccupante, poiché la difesa aggressiva di princìpi assoluti, quali la libertà di opinione e di espressione, appare destinata a travolgere qualsiasi altra istanza, compresa la tutela dei più deboli. E se si immagina questo metodo trasposto su terreni ancora molto vaghi come la bioetica, la preoccupazione si trasforma in allarme. Il dibattito tuttora in corso sulle staminali offre del resto un quadro abbastanza eloquente delle difficoltà in cui ci dibattiamo.

Proprio la mancata tutela dei diritti delle minoranze, della democrazia deliberativa e della concezione in base alla quale uno Stato democratico ha il dovere di sanzionare ogni abuso di maggioranza sono peraltro valse a Kelsen un’accusa molto pesante, quella di aver giustificato – alla luce della Grundnorm, e al di fuori di qualsiasi distinzione di carattere etico – l’assetto giuridico dello Stato nazista. In effetti, le tesi di Kelsen sono molto più sottili di quel che farebbero pensare certe forzature del giuspositivismo, ma al tempo stesso si prestano alla radicalizzazione. E la rassicurazione che «il principio di maggioranza è osservato in una democrazia quando è consentito a tutti i cittadini di partecipare alla creazione dell’ordinamento giuridico, per quanto il suo contenuto sia determinato dalla volontà della maggioranza » – cioè il richiamo al diritto di voto come contrappeso preliminare di qualsiasi futuro abuso – non appare sufficiente. La verità è che per la produzione normativa dell’economia capitalista – anche nelle sue punte di «avanguardia», come il fenomeno cinese – il meno che si possa dire è che la tutela delle minoranze non rappresenta una priorità. Sono argomenti su cui si potrebbe discutere molto a lungo, e lo si è anche fatto. Ma che l’autoreferenzialità del diritto si richiuda come una trappola su chi vi si affida, e porti a costituire sistemi di regole sempre più articolati e sempre meno utili alla costruzione e al mantenimento di società fondate su un minimum di princìpi condivisi, appare innegabile.

Ed è forse da questo stallo che occorre ripartire. I limiti di una concezione autoreferenziale del diritto si toccano con mano quando il modello pangiuridico entra in contatto con un’entità con la quale sembra ambire per natura a fondersi: il cosiddetto libero mercato. Al mercato, oggi, viene attribuita una sorta di potenza magica, in grado di comporre e risolvere qualunque problema economico. Il mercato, secondo i suoi apologeti più intransigenti, si porrebbe come un locus artificialis (non come un locus naturalis), e si identificherebbe solo con lo statuto giuridico, da cui trae il massimo di libertà contrattuale – che è poi la libertà del più forte –, di chi è in grado di imporre la propria volontà.

È abbastanza ovvio che le cose non stanno così, e che quel poco o quel tanto di razionalità presenti in ogni mercato non si reggono necessariamente su un sostrato giuridico. Il mercato è un organismo molto più complesso delle operazioni giuridiche che in esso si svolgono, o della disciplina che lo regola. È un insieme di scambi che fuoriescono dagli schemi contrattuali, e anche dalla sfera del diritto, e la mera esistenza di costi di transazione pone seri limiti alla sua efficienza. A meno di non inseguire il mercato ideale vagheggiato da Pareto, dove il vantaggio di qualcuno non provoca svantaggi ad altri, anche se per partorire questa bizzarra creatura è necessario un genitore scomodo e ingombrante, cioè un «sistema di comando »1[3]autoritario, formale ed esclusivamente riferibile al diritto, con l’esclusione di ogni elemento esterno e quindi di ogni costo di transazione (ma con la presenza inevitabile di forti squilibri fra le condizioni economiche e giuridiche dei vari attori). Al di fuori dei laboratori teorici, cioè nel mondo reale, il mercato è prima di tutto la sede (naturale) di un vastissimo e capillare bargaining, cioè di una contrattazione continua (e solo in parte «giuridica ») che si articola in una serie di pratiche informali. Al suo interno, spesso fortunatamente, regna il disordine, e i contratti sono valutati, e considerati vincolanti, solo in base alla loro efficacia.

La dottrina della Law and Economics americana ha dimostrato, per una volta in modo molto convincente, come anche nella valutazione degli schemi giuridici possa prevalere un opportunismo che va ben al di là del «dilemma del prigioniero». Questo esempio classico della teoria dei giochi vuole che due imputati di uno stesso crimine, se non possono comunicare fra loro, scelgano, in base a uno stesso calcolo di convenienza, la soluzione più svantaggiosa. I contratti e le norme giuridiche vengono spesso considerati in base a un criterio strettamente imprenditoriale: è più conveniente seguire lo schema contrattuale e obbedire alla legge, o essere inadempienti e affrontare le sanzioni che quella stessa legge prevede? Di fatto, nell’ambito del bargaining la valutazione è, per così dire, precedente al diritto, e nei comportamenti il peso di quest’ultimo si va attenuando. Le recenti tendenze alla deregolamentazione dei mercati in tutti i paesi a capitalismo avanzato rappresentano un’ulteriore inconfutabile prova che nega l’esistenza stessa di un ordine rigorosamente legislativo del mercato.

Insomma, il capitalismo finisce, come ho già sopra osservato, per essere vittima di una alluvione legislativa che se da un lato tende ad affermare i princìpi di libertà (contrattuale, d’impresa, di mercato), dall’altro stritola quegli stessi princìpi attraverso la difesa burocratica delle asimmetrie, in un groviglio di regole che fanno prevalere la volontà del contraente più forte, o di quello che paradossalmente non rispetta alcuna regola.

Di fatto, il comportamento «anarchico» dei vari attori ha una causa ben precisa: il bargaining è infatti per definizione around the law, intorno alla legge. Esiste cioè una realtà che precede la legge, e in qualche caso la ignora. Il caso tipico è quello dei cosiddetti grey market, termine col quale i giuristi anglosassoni definiscono tutte quelle situazioni in cui esiste il mercato, ma non il diritto. I grey market, in altre parole, vivono tranquillamente (o no) al di fuori delle preoccupazioni di chi dovrebbe, o vorrebbe, regolamentarli. In Italia, ad esempio, il mercato dei futures esisteva già quando ancora i giuristi discutevano l’ammissibilità di quel tipo di scambio, per certi versi equiparabile al gioco d’azzardo e alla scommessa. E mentre si ipotizzava la nullità degli scambi, gli investitori su quegli stessi scambi guadagnavano – o perdevano – fortune.

Artificiale o naturale che sia, il mercato nasce dal basso, e il diritto è destinato a rincorrerlo, e tutt’al più a tentare di condizionarlo. In questo, precisamente, risiede il suo ruolo – tutt’altro che marginale, come ovvio, ma molto diverso dall’assolutismo normativo con cui a volte lo si identifica. Se regole nuove (e possibilmente efficaci) servono, non vanno dunque derivate (solo) da altre regole, a meno di non voler innescare una proliferazione incontrollabile e vagamente sinistra; non solo di norme, ma anche di comportamenti che le eludono e che richiedono un ulteriore, immediato, intervento normativo. Prendiamo la trasparenza, da tutti considerata una precondizione inaggirabile dell’efficienza e della credibilità dei mercati. Il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis D. Brandeis, la paragonava qualche anno fa alla «luce del sole, che tutti sanno essere il miglior disinfettante». Eppure quella stessa luce, secondo la fulminante chiosa di Louis Loss, «può causare il cancro della pelle»[4].1 Per fare solo un esempio, escogitare regole che incoraggino i dipendenti di una società a denunciare ogni presunto comportamento «opaco» della società stessa può tradursi nella rottura di altre regole, comunemente accettate per tutele diverse. È così che la trasparenza diventa delazione, quando, come avviene nel Sarbanes-Oxley Act (s. 806), i delatori (i ben noti whistleblowers) siano protetti o vengano addirittura ampiamente ricompensati. Occorreranno regole aggiuntive in grado di tutelare al tempo stesso dipendente e società, in una spirale perniciosa, e tendente all’infinito, di aggiustamenti formali. No, le regole vanno ispirate, nei limiti del possibile, alla realtà e alle sue evoluzioni. Anziché ai codici si deve guardare, come suggeriva Auden, a ciò che esiste sotto il sole: «La Legge, dicono i giardinieri, è il sole, / la Legge è quella / cui tutti i giardinieri obbediscono / domani, ieri, oggi»[5].

[1]Soprattutto in General Theory of Law and State, Cambridge, Mass., 1945 (trad. it. Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1952).

[2]Si veda in particolare Taking Rights Seriously, London, 1977

(trad. it. I diritti presi sul serio, Bologna, 1982).

[3]Secondo la definizione di G. Calabresi, L’inutilità di Pareto: un tentativo di andare oltre Coase, in AA.VV., Analisi economica del diritto privato, Milano, 1998, pp. 16 sgg.

[4]Foundamentals of Securities Regulation, Boston, 1983.

[5] W.H. Auden, Un altro tempo, a cura di N. Gardini, Milano, 1997, p. 19.

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