«». Corriere della Sera, 31 luglio 2016 (c.m.c.)
Berlino Est, 1953, operai in rivolta repressi manu militari. «La classe operaia ha tradito la fiducia del partito, ora dovrà lavorare duramente per riguadagnarla», dichiara il segretario dell’Unione degli scrittori. Bertolt Brecht, sarcastico, parafrasa così: «Il comitato centrale ha deciso. Poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».
Storie di ieri, anzi, dell’altro ieri. Ma, per paradosso, una loro attualità ce l’hanno. Di fronte al dilagare del populismo, della xenofobia, delle spinte a chiudersi a riccio in difesa di quel che resta delle identità tradizionali, vere o presunte, le nostre élite, che pure non sono sorrette né da un’ideologia potente né dall’Armata rossa, non si comportano troppo diversamente dagli uomini di ferro della Repubblica democratica tedesca.
Condannano, come è giusto che sia. E però, quasi fossero classi dirigenti per diritto divino, rifiutano di interrogarsi su se stesse, sembrano non chiedersi nemmeno se per caso portano qualche responsabilità per questo disastro, provano a navigare a vista. È difficile, certo. Ma, se non si parte di qui, la battaglia, almeno sotto il profilo politico e culturale, è persa in partenza, tanto più adesso, quando le cronache ci danno conto quasi quotidianamente, e in tempo reale, degli orrori perpetrati dal terrorismo diffuso fondamentalista, e chiunque si chiede se il peggio debba ancora arrivare.
Non è una boutade: cominciare a discutere apertamente di noi, e del nostro passato prossimo, sarebbe con ogni probabilità più utile, per affrontare il presente e il futuro, che chiedersi angosciati se sia tornato o no il tempo delle guerre di religione: de te fabula narratur .
È appena il caso di sottolineare un’evidenza comune a tutto l’Occidente, anche se, naturalmente, le cose non vanno dappertutto nello stesso modo, e non mancano i tentativi di invertire la rotta. Il mondo ci è cambiato intorno, e il nemico ci è cresciuto nel cortile di casa (è la globalizzazione, bellezza) senza che, fatte salve le dovute eccezioni, la politica (a differenza delle donne e degli uomini in carne e ossa) se ne rendesse conto o vi facesse troppo caso, anche perché era, e in gran parte è ancora, in tutt’altre faccende affaccendata.
Bruciate rapidamente le illusioni degli anni Novanta del secolo scorso, frutto in gran parte dall’ingenuo entusiasmo con cui venne salutata la caduta dell’Unione Sovietica, una politica sin troppo ridimensionata nei suoi poteri reali e nelle sue ambizioni si è ritrovata clamorosamente sprovvista tanto di un sensorio vigile nei confronti dei mutamenti tellurici della morfologia sociale quanto di una qualsivoglia visione o, per parlare in modo più chiaro, di quel confronto tra diverse culture, tradizioni e idee di società che è, o che ci illudevamo fosse, il sale di ogni democrazia degna di questo nome.
È stata investita contemporaneamente dunque, o si è autoinvestita, da un vistoso deficit di conoscenza, di rappresentanza, di decisione e di leadership: in poche parole, nella sua autoreferenzialità è parsa inutile, prima ancora che lontana e ostile, agli occhi di un numero sempre crescente di cittadini. Per tornare al paradosso del vecchio Brecht, si può anche pensare di venirne a capo abrogando il popolo che, come dicevano gli sgherri di Scarpia nella Tosca cinematografica di Luigi Magni, «è boia, è voltagabbana, oggi ti onora domani te sbrana». Naturalmente è più ragionevole affrontare la questione dal lato opposto, restituendo cioè dignità alla politica: peccato che sia così difficile capire come, e soprattutto con chi, si possa farlo.
A voler essere onesti ce n’è per tutti, anche per quello che una volta si chiamava il mondo dell’informazione e dei suoi abitanti, dal più prestigioso opinion maker (altra espressione ormai desueta) al più giovane dei cronisti. Proprio quando sarebbero stati necessari pensieri e politiche ben diversi, certo, da quelli novecenteschi, ma non meno forti e forse non meno radicali, ci siamo nutriti di pensieri e politiche deboli o, come allegramente suol dirsi, smart . Di più. Molto spesso li abbiamo invocati come gli unici auspicabili e necessari, anche nella convinzione che oltretutto, nell’età di Twitter, fossero gli unici possibili.
Non abbiamo reso un buon servizio né a una politica che aveva e ha bisogno di una rigenerazione profonda né a una società civile, o come si chiama adesso, che non necessita sicuramente di pedagoghi, ma di conoscenze che ne allarghino e ne approfondiscano il punto di vista, sì. Sulla Promenade des Anglais appena riaperta, tanti turisti e tanti nizzardi si sono accalcati per farsi un selfie sul luogo della strage. Forse, anzi, sicuramente una folla solitaria manifesta anche così il suo dolore e la sua vicinanza. Non c’è da scandalizzarsi. Ma da interrogare, e da interrogarsi, sì.