Secondo una dichiarazione riportata da Repubblica poco dopo la sua nomina, il ministro dell´Economia Domenico Siniscalco ha detto di non credere al declino dell´industria italiana. Quel che ad alcuni sembra un declino sarebbe in realtà l´esito di una profonda trasformazione della nostra struttura industriale.
Il parere del ministro merita un commento per due ragioni. Anzitutto nella elaborazione di interventi eventualmente diretti a contrastare il declino dell´industria, meglio ancora a rilanciarla, il ministero dell´Economia conta assai più dell´evanescente ministero per le Attività produttive. Anche perché esso controlla tramite il Tesoro alcuni degli ultimi pezzi pregiati dell´industria italiana, Eni e Finmeccanica, per i quali sono in vista novità importanti, tra cui la creazione di Finmeccanica 2. Se il suo titolare per primo crede che il declino non esista, tali interventi non vi saranno, o avranno un indirizzo molto diverso. In secondo luogo un parere analogo nella sostanza a quello del ministro è stato espresso di recente da autorevoli esponenti del centro sinistra. In questo caso esso si rifletterebbe nel programma di quest´ultimo per le prossime elezioni politiche, supponendo che prima o poi esso veda la luce.
Affermare che l´industria italiana non soffre di declino, bensì si è trasformata, può significare almeno tre cose diverse. Che certi settori dell´industria sono sì scomparsi, ma ne sono emersi altri che prima non esistevano o erano di modesto peso. Oppure che uno stesso settore si è differenziato al suo interno, e sebbene continui a venir designato con il medesimo nome produce beni e servizi differenti. Infine la stessa affermazione può voler dire che un intero settore, caratterizzato un tempo da poche grandi imprese, si è frazionato in gran numero di imprese piccole e medie. Come settore nel suo complesso continua a prosperare, ma le dimensioni ridotte di ciascuna impresa fanno sì che il settore sia diventato invisibile o quasi ai tradizionali metodi di misurazione delle attività economiche.
Riguardo ai primi due modi di concepire le trasformazioni dell´industria, le statistiche internazionali non offrono in verità molti appigli per sostenere che l´industria italiana, indossate nuove vesti, gode tuttora di buona salute. Si prenda ad esempio l´elenco delle Global 1000, le prime mille società del mondo classificate in base al loro valore di mercato, pubblicato ai primi di agosto da "Business Week". La prima cosa che salta all´occhio in tale elenco è che tra le prime 50 ben 36 sono società o gruppi industriali, e industriali sono le prime quattro: General Electric, Microsoft, Exxon e Pfizer. Il primo gruppo italiano in classifica è l´Eni, al 37? posto, con un buon avanzamento rispetto al 2003 quando era 50?. Tra l´86? e il 105? posto si collocano Enel, Tim e Telecom Italia. Dopodiché per trovare altre imprese industriali italiane occorre scendere verso il 750? posto, dove stanno fianco a fianco Edison e Luxottica. Saltando un altro centinaio di scalini verso il basso si incontrano finalmente il gruppo Fiat (841?) e Finmeccanica (850?, con un forte balzo all´ingiù perché nel 2003 l´analogo rapporto la poneva al 669?), strette tra un folto gruppo di corporations non appartenenti, parrebbe, ai primi paesi industriali del mondo. Sono infatti spagnole, canadesi, taiwanesi, tailandesi, messicane.
Che cosa si può trarre da tale elenco a favore dell´ipotesi che l´industria italiana non declina bensì va trasformandosi? Piuttosto poco. La sola novità - per quanto significativa - è rappresentata dal gruppo Luxottica, diventato il primo produttore mondiale di occhiali. Il cui valore di mercato è più elevato del gruppo Fiat - 7,3 miliardi di dollari rispetto a 6,4 - ma le cui vendite sono diciassette volte minori: 3,4 miliardi di dollari contro 57,7 nel 2003 secondo il dossier di "Business Week". In altre parole ci vorrebbero in Italia altre diciassette novità come Luxottica per pareggiare i volumi di vendita, e quelli correlati di produzione e di occupazione diretta e indiretta, dell´ultimo grande gruppo manifatturiero esistente in Italia.
Per il resto dall´elenco in parola il quadro che si ricava dell´industria italiana appare così connotato: tolte le prime quattro (Eni, Enel, Tim e Telecom Italia), le altre cinque si collocano verso il fondo della classifica, dietro a centinaia di società appartenenti a paesi più piccoli o meno sviluppati dell´Italia. Per di più una prospettiva comparata le imprese industriali italiane sono scarse: appena 9 sulle 23 società incluse nell´elenco, una minoranza, mentre quelle britanniche sono 40 o più su 73, le francesi 32-33 su 44, le tedesche 23 su 35. Infine le nove imprese industriali italiane producono precisamente i beni ed i servizi descritti dalla loro ragione sociale, come più o meno fanno sin dalla nascita. Ossia non si sono trasformate affatto, nel senso di avere costituito entro di sé sottosettori che a fronte di una crisi di lungo periodo delle produzioni tradizionali assicurerebbero comunque la sopravvivenza e la crescita del gruppo. Salvo voler considerare rivoluzionario il fatto che l´Enel abbia una consociata telefonica, o salvifico per il gruppo Fiat avere acquisito delle partecipazioni in campo energetico.
Resterebbe, dalla parte dell´ipotesi "non declino ma mi trasformo", che stando alle dichiarazioni ricordate all´inizio apparirebbe curiosamente bipartisan, l´obiezione che le imprese industriali italiane sono ormai quasi tutte delle piccole-medie imprese, nessuna delle quali ha una stazza sufficiente per entrare nell´elenco delle Global 1000 di "Business Week", o in quelle simili redatte annualmente da "Fortune", "Financial Times", o Standard & Poor´s. Come a dire che l´industria italiana c´è, ed è solida, ma le sue unità hanno - volutamente e felicemente - dimensioni troppo limitate per poter essere captate dalle grezze lenti delle classifiche internazionali. Con l´implicazione che l´Italia sarebbe l´unico paese al mondo che insiste a definirsi industriale non avendo più imprese industriali capaci di far ricerca e sviluppo su larga scala, di reggere alla concorrenza internazionale grazie alla novità ed alla qualità dei suoi prodotti più che alla compressione del costo del lavoro, e di avere in mano propria, piuttosto che nelle mani di gruppi economici di altri paesi, i centri di governo della propria attività.