Ritorno all'Aquila «Il cuore della città non vada perduto»
«Lassù la vede? E' un’aperutura con distacco, il segno dell'avvenuta rotazione. Potremmo assistere al ribaltamento della facciata, determinato dalla pressione delle volte, che in condizioni dinamiche viene amplificata...» Insomma, Petracca, il palazzo sta venendo giù? «Beh, sì». L'imbarazzo sfiora il dolore fisico nel funzionario dell'Istituto per le tecnologie delle costruzioni (Cnr). Aurelio Petracca vorrebbe recuperare tutto, non solo Collemaggio, invasa dai tubi Innocenti, e le Anime Sante, con quel loro «cappellone» di metallo che incapsula la cupola (crollata) del Valadier. A chi lavora al capezzale dell'Aquila non basta neppure salvare Santa Maria di Paganica, ridotta a una scatola scoperchiata, che persino lo storico dell'arte Germano Boffi, ammette: «non mi stupirei se si decidesse di abbattere quel che non è più recuperabile».
Torniamo nella zona rossa otto mesi dopo quella notte del 6 aprile. Qui, alle 3 e 32, tutto era polvere e crepitio, dolore e paura, eppure nessuno ne parla; è il pudore dei fortunati. Sono morti in 308, più di 1.500 feriti. La scossa è partita otto chilometri sotto i pascoli tra l'Aquila e Roio, Tornimparte e Lucoll. Una frustata di magnitudo 6,3, sessantamila edifici gravemente danneggiati e 48mlla sfollati, otto mesi di lavoro duro, l'afa e il gelo delle tende, le polemiche sulla militarizzazione, quelle sul piano Case (200 edifici provvisti di isolatori antisismici) e sulle casette in legno, infine l'esasperazione per le autorizzazioni-lumaca della ricostruzione leggera, quelle delle case meno danneggiate. Tuttavia, date le proporzioni del disastro, la gestione della crisi è stata da manuale. Napolitano ha parlato di «una pagina all'attivo dell'Italia».
Non si può dire lo stesso del G8. Tante, generose e solenni le promesse dei Grandi; alla fine, però, hanno adottato un monumento colpito dal sisma solo francesi, tedeschi e russi; Zapatero deve aver pensato che dopo la bolla immobiliare non fosse il caso di investire sul Forte spagnolo e persino il governo kazako è stato più generoso di Obama... Insomma, meno male che c'è la solidarietà degli italiani con le loro collette milionarie e meno male che ci sono i vigili del fuoco che si calano dalle gru nelle absidi squarciate per salvare le madonnine di terracotta, i volontari di Legambiente e i funzionari dei beni culturali e della Protezione civile, i tecnici del' Itc-Cnr dell'Aquila, terremotati pure loro ma in campo dal 6 aprile, e quelli della diocesi. Questo «118 storico-artistico» è stato collaudato in Umbria e nelle Marche: è gente capace di progettare su due piedi un puntellamento e di velinare un affresco per portarlo via prima che il muto crolli.
All'interno di santa Maria di Paganica si lavora su tre metri di detriti: «Questo Natale è stato clemente, ma ad ogni gelata i vigili del fuoco ci fanno uscire per i crolli spiegano Massimiliano Cucchiella e Laura Zanotti di Legambiente . Bisogna fare in fretta se si vuole salvare il cuore della città'». A Collemaggio non si è arrivati in tempo e l'organo è andato perduto. Facciamo qualche passo tra i muri imbrigliati in massicce travi di ferro. Palazzo San Nicandro regge grazie alle catene inserite nella muratura dopo il terremoto del 15, mentre il palazzotto a fianco si gonfia in modo sinistro; in gergo, si chiama «spanciamento».
Non è messo bene neppure palazzo Ardinghelli, e non è solo colpa del terremoto. Petracca si raggela di fronte a San Silvestro: «quelle sono crepe nuove». Ci si affida ai tiranti in policarbonato grandi fasce gialle, grigie, blu, secondo la resistenza alla trazione ma un intervento risolutivo costerà almeno mezzo milione. Avanziamo tra macerie e pozzanghere, fino alla torre ottagonale di San Pietro, che si è sbriciolata per colpa di un solaio in calcestruzzo. Ecco i campanili binari di San Marco che hanno sfiorato il collasso. Oltrepassiamo il crocevia del danno per entrare, cautamente, nella chiesa di Santa Margherita: la Madonna dipinta da Saturnino Gatti all'inizio del 500 è ancora lì, nella cappella dove l'hanno collocata dopo il sisma del 1703, sgomberando la chiesa di San Francesco.
Un centinaio tu metri, siamo in pieno struscio aquilano, nel «corridoio» aperto su Piazza Duomo per dare un assaggio di normalità: i passanti pochi e gli sguardi scettici. È aperto solo il caffè Nurzia, gremito dagli altri commercianti, visibilmente spazientiti: «Il mio locale non ha crepe e allora perché io non posso riaprire?» protesta Elio Balestrazzi, uno dei 5 maggiorenti della città. Ai confini della zona rossa, è affollatissimo il Boss, storico locale degli universitari: tra una «tazza» e l'altra (gli abruzzesi chiamano così i bicchieri di vino) ti raccontano che non pagano le tasse ma che le aule sono distanti chilometri e che forse l'anno prossimo si iscriveranno altrove.
Proteste, dubbi ed esodi sono normali in «tempo di guerra»: questa è l'espressione con cui la Protezione civile ci ricorda a ogni piè sospinto che l'emergenza non è finita. A fine gennaio ci sarà il passaggio di consegue tra Bertolaso e il commissario straordinario, il governatore Gianni Chiodi.
Rimuovere le macerie? Può essere un business
Da sempre lo sguardo degli abbruzzesi ama riposarsi sulle dolomie del Como Grande, che dal Miocene rivaleggiano con le marne lasciate lì dall'Adriatico. I calcari del Gran Sasso, poi, quelli sono ovunque: conci bianchi e rosa decorano da secoli le facciate di chiese e palazzi spezzati dal terremoto e la stessa pietra chiara con cui è costruita la fontana delle 99 cannelle dava forma agli antichi castelli. Quanto possano costare i sassi che adesso ostruiscono i vicoli del centro storico, le schegge dei marmi. le lesene spezzate, il pietrame che cola dai muri feriti, gli aquflarii lo sanno dal 1532: con la scusa di punire una rivolta, il viceré di Napoli pretese da loro centomila ducati all'anno, tanti gliene servivano per edili care il forte spagnolo.
Se la storia dell'Aquila è scritta nella pietra, il suo futuro è liberarsene. La rimozione delle macerie dalle vie della città costituisce il presupposto di ogni progetto di ricostruzione. Ed è il business del momento. Lo sa bene Alfredo Moroni, assessore all'ambiente del Comune. Prima del 6 aprile, il suo problema era quello di spedire i rifiuti della città il più lontano possibile. Non erano molti e comunque, per uno dei soliti paradossi della politica, l'Aquila, che è circondata dalle cave, non possedeva una discarica. Ora Moroni sta cercando disperatamente dei depositi temporanei dove dividere pietre da tegole, ferro da plastica, termosifoni da frigoriferi, insomma tutto quel che è venuto giù insieme alle case. Il problema, ovviamente, non riguarda solo l'Aquila: la legge 77 impegna anche gli altri 56 comuni a smaltire analogamente i propri detriti.
Facendo grande attenzione a distinguere tutte quelle pietre che sassi non sono: il rischio che finiscano nei frantoi anche antichi stucchi e preziose terracotte è talmente alto che il Consiglio superiore dei beni culturali ha sentito il bisogno di raccomandare per iscritto «l'asporto controllato delle macerie e il vaglio dei reperti inglobati nei crolli, ricordando che essi col maltempo si compattano». La selezione prima dello smaltimento è imprescindibile perché la legge, in virtù della quale il Comune ne ha acquisito la proprietà e può rimuoverle, prevede che le pietre siano «rifiuti solidi urbani» e che debbano seguire il medesimo percorso che viene utilizzato abitualmente per il ciclo integrato dei rifiuti.
E qui ci imbattiamo nel secondo paradosso: ci sono macerie e macerie. Quelle del palazzo crollato o demolito dal Comune devono attendere che si trovi un deposito» dove «lavorarle», mentre quelle prodotte dalle attività di ristrutturazione, magari effettuate nel palazzo di fianco, rientrano tra i rifiuti speciali e possono essere smaltite tranquillamente. Certo, si deve trovare una discarica a norma e pagare il servizio, ma si tratta pur sempre di costi che lo Stato rimborserà ai proprietari di immobili terremotati e ci dovrebbe contenere il fenomeno dello smaltimento abusivo.
In realtà non è sempre così: « Troviamo ancora molte macerie abbandonate ma sono quelle dei privati che ristrutturano la casa da soli e per i quali abbiamo creato dei punti di conferimento gratuito» annuncia l'assessore, che scommette sull'efficacia dell'operazione e persino sulla sua economicità. «Oltre ad avere un valore ambientale - ci dice - il nostro sforzo va nella direzione del riuso: la normativa prevede che 1130% delle costruzioni sia realizzato con inerti di recupero». In pratica, dopo aver diviso pietre da laterizi, ferro e plastica, dovrebbe essere possibile collocare con profitto questa singolare «produzione». E a questo punto che interviene il terzo paradosso: il terremoto è capitato in una delle regioni italiane in cui il materiale da costruzione costa dimeno. L’Abruzzo è ricco di cave. Quelle dell'Aquilano, poi, sono per il 70% ex usi civici e i comuni impongono ai cavatori canoni irrisori per estrarre il carbonato di calcio, la pietra chiara con cui si costruisce di tutto.
I blocchi crollati dai palazzi dell'Aquila venivano da Poggio Picenze e da Ocre, da Pizzoli e da Montereale. La pietra aquilana, del resto, è rinomata da secoli: il Palazzaccio di Roma deve tutto alle cave di San Pio delle Camere. Ebbene, trovarsi in poche ore con cinque milioni di metri cubi, tante sarebbero le macerie da trattare, non è esattamente una fortuna: « non abbiamo alternative» obietta Moroni, escludendo«il ritombamento delle macerie in modo indiscriminato in cave dismesse». Il riferimento non è casuale: dopo secoli di estrazioni, l'Aquila è una groviera, Resta dunque l'opzione profit oriented anche se il margine di profitto non è chiaro. Un blocco di marmo antico, naturalmente, può essere venduto al 300% del prezzo della pietra vergine, perché la storia è un valore aggiunto, e anche il recupero dei metalli può essere remunerativo, anche se bisogna ricordare che in molte case dell'Aquila si trova ancora il costoso eternit...
Il punto debole dell'operazione è comunque la competitività di un metro cubo di pietra vergine: esce dalla cava aquilana intorno agli 8 euro contro i tradizionali 12 e quindi per avere un mercato, calcolando i costi del trattamento, le macerie riciclate non dovranno superare i 2. La stima è dell'Associazione regionale cavatori abruzzesi, che in questa partita rivestono il duplice molo di concorrenti nella produzione di inerti e di fornitori del servizio di lavorazione. «Malgrado le leggi, solo il 10% delle estrazioni torna sul mercato come materiale di riutilizzo» commenta il loro presidente, Francesco Giannini. Purezza, resistenza, costi, come ci sono macerie e macerie, c'è impianto e impianto; fino ad oggi, l'emergenza e stata gestita riempiendo un deposito di Bazzano, al ritmo di 600 tonnellate al giorno.
Ieri il tavolo ambientale ha deciso di raddoppiare l'impianto, portandolo a una capacità di trattamento di 1,5 milioni di meni cubi annui. Si sarebbe voluto fare di più, ma cinque dei nove siti individuati per creare la rete dei depositi temporanei sono stati sequestrati dai Carabinieri nelle scorse ore a Pizzoli. Da anni venivano usati per smaltire abusivamente i rifiuti e non se ne era accorto nessuno. Saranno pure pietre ma risvegliano interessi enormi. Pare infatti che la rimozione delle macerie di questo terremoto costerà pi di 50 milioni di euro: Quanto ai tempi necessari, basti sapere che Marche ed Umbria, dove il sisma aveva prodotto meno danni e che optarono per smaltire le macerie in discarica, impiegarono pi di dieci anni per risolvere il problema.