Il manifesto, 26 marzo 2013
Sempre più a fondo
Il libro di Barbagallo ha il merito di riaffermare la questione Nord-Sud come centrale - e mai risolta - in un Paese in cui «l'inconsistenza e l'inadeguatezza della classe dirigente esprime il degrado politico-culturale» e in cui «l'unico cemento» è quello delle relazioni personali, familiari, di clan, che impediscono qualsiasi mobilità sociale. Non solo. Gli indicatori economici segnalano che negli ultimi trent'anni è aumentato il divario tra Nord e Sud d'Italia, e tra quest'ultimo e le altre regioni d'Europa. Un divario che si è ingigantito dal 2007 a oggi, come ci ha spiegato il Censis qualche giorno fa: il Pil si è ridotto del 10 per cento, a fronte del 5,7 per cento nel Centro-Nord. Anche il rapporto Svimez dello scorso anno era stato impietoso: il 60% delle persone che hanno perduto il lavoro risiede al Sud, dove c'è solo il 25% degli occupati in Italia e appena un giovane su tre ha un lavoro. Perfino nella sanità la situazione appare disomogenea: uno studio della rivista Cancer epidemiology che ha confrontato i registri dei tumori di 14 città italiane - ne ha riferito il Corriere della Sera del 6 febbraio scorso - ha evidenziato una grande disparità nelle diagnosi precoci e nelle cure oncologiche, sempre a favore del Settentrione.
Questo gap - che nessun governo è mai riuscito realmente a ridurre o almeno a stabilizzare, fatta eccezione forse per il decennio del boom economico '55-'64 - è accentuato dalla mancanza di una politica industriale che data almeno dalla fine della Cassa per il Mezzogiorno, dal deficit cronico di trasporti - con i fondi riservati alle infrastrutture finiti a coprire i buchi di bilancio di città come Roma e Catania o per altre emergenze - e dal lungo declino italiano, cominciato una trentina d'anni fa. Una serie di fattori che hanno contribuito a consolidare una società statica, «seduta su rinnovati privilegi e antichi difetti», egemonizzata da un blocco sociale parassitario che ha preso il posto del vecchio «blocco agrario» e pertanto poco attrezzata ad affrontare le sfide della grande trasformazione globale del capitalismo.
Se questa è l'Italia di oggi, un Paese ridotto a «mucillagine», come l'ha definito il Censis un anno fa, corroso da una crisi antropologica che Pier Paolo Pasolini per primo aveva intuito e che il berlusconismo ha portato alle estreme conseguenze, qual era lo stato della penisola all'indomani dell'Unità? E qual è stato l'andamento del rapporto Nord-Sud in questi 150 anni, dal giorno in cui il Luogotenente Luigi Carlo Farini, arrivato a Napoli dalla Romagna, sbottò: «Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica!»?
Il quadro d'insieme di Barbagallo ha il merito di fare piazza pulita di quei revisionismi storici fioriti nella disgregazione degli ultimi anni e ingigantiti dai media. Un'«invenzione della storia», potremmo affermare parafrasando l'«invenzione della tradizione» di Eric Hobsbawm, che di volta in volta tende a dimostrare che «si stava meglio quando si stava peggio» e che l'unificazione del Paese non è stata altro che una colonizzazione a fini di sfruttamento del Nord nei confronti del Sud. Basterebbe invece far parlare i dati: se è vero che la prima ferrovia italiana è stata la Napoli-Portici, è altrettanto vero che parliamo di un tratto di appena dieci chilometri e che, al momento dell'Unità, su 2.400 chilometri di strada ferrata in Italia, solo 126 erano al sud; le fabbriche meridionali erano legate allo Stato borbonico - di per sé autoritario e feudale - e concentrate attorno alla capitale Napoli, mentre il resto del Mezzogiorno viveva in condizioni di spaventosa arretratezza, con una fortissima disgregazione sociale e una gran debolezza dello spirito pubblico; il Sud, inoltre, aveva tassi di analfabetismo che sfioravano il 90 per cento, di gran lunga superiori a qualsiasi Paese europeo e anche di Lombardia e Piemonte dove non superavano il 40 per cento, mentre la scolarità, al Nord del 90 per cento, nel meridione si fermava al 18 per cento; i meridionali, altro dato significativo, erano in media tre centimetri più bassi dei settentrionali, sostanzialmente a causa della scarsa alimentazione - ancora a fine anni Venti gli italiani mangiavano meno carne, burro, uova e zucchero dei Paesi europei avanzati, e nella provincia di Salerno i cafoni mangiavano la metà della carne, delle uova e dei latticini rispetto ai galantuomini.
Ciononostante, la spinta unitaria - portata avanti da una minoranza di formazione illuministica lungo un secolo di grandi passioni, inaugurato dalla rivoluzione napoletana del 1799 - conferì al Risorgimento una decisa connotazione politico-ideologica, e il Sud ebbe una funzione centrale, come è ben esplicitato nel film di Mario Martone Noi credevamo.
Dall'Unità a oggi, la questione delle «due Italie» di cui parlava Giustino Fortunato si è variamente riproposta e ha alimentato dibattiti e polemiche. Al suo interno, la «questione napoletana» ha rappresentato un storia a sé, e rimane anch'essa tuttora irrisolta, come sta simbolicamente a indicarci il rogo della Città della Scienza. La ex capitale del Regno delle Due Sicilie era una delle città più popolate d'Europa e la sua «plebe» reazionaria, che aveva fatto letteralmente a pezzi i giacobini nel 1799, è stata variamente descritta e analizzata da storici, sociologi, antropologi e scrittori. Giustino Fortunato se la prenderà con l'indolenza dell'aristocrazia e della borghesia partenopea, «fiacca, disgregata, indifferente, pettegola, sospettosa». Raffaele La Capria, con la licenza visionaria dello scrittore, imputerà a quest'ultima, sconfitta e ridotta a «piccola borghesia» provinciale, di aver cercato un compromesso con l'altra Napoli, quella plebea, per paura che questa ripetesse quanto fu capace di fare nel 1799.
Poi c'era il resto del Mezzogiorno. Ancora nel 1928, Umberto Zanotti Bianco scriveva sul suo viaggio ad Africo, Tra la perduta gente di Calabria: «Sono talmente stanco di tutto il luridume, di tutte le malattie, di tutte le lacrime senza speranza di questa povera gente! Essa non ha per rifugiarsi che povere tane buie e sconsolate, e quando mi ritrovo solo la notte, nella mia tenda, non so sottrarmi dall'impulso di gridare aiuto per loro». Questo erano le aree interne del Sud Italia, quella società «immobile» che - basta leggere il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi - il fascismo tentò di abbindolare con il sogno delle terre vergini africane ma di cui in realtà peggiorò le condizioni per via del blocco dell'emigrazione - che per tanti anni dall'Unità era stata una leva politica sapientemente adoperata, per attenuare grazie alle rimesse il divario con il Nord industrializzato - e con una sconclusionata autarchia fondata sulla coltivazione massiva del grano.
C'era una volta il boom
L'unico periodo in cui il divario Nord-Sud si attenuò fu a partire dagli anni cinquanta, grazie al boom economico, all'emigrazione interna e a una forte politica statale di industrializzazione. Ma dalla fine del fordismo i «distretti» sorti all'epoca dell'industrializzazione sono falliti uno dietro l'altro senza che ci sia stata alcuna politica di riconversione, persino in quella parte di Sud più modernizzata che è la dorsale adriatica - la terra della «polpa», per stare a una definizione del più grande conoscitore del territorio meridionale che il Novecento abbia avuto, l'economista agrario Manlio Rossi-Doria.
Nel frattempo la «questione meridionale», malattia non curata per tempo e a dovere, ha finito per diventare «questione italiana», e tutto il Paese si trova oggi contagiato dal virus che ha covato al suo interno per troppo tempo. Si avvera così l'antica profezia di Mazzini: «L'Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà». Parafrasando il più rivoluzionario tra i nostri padri della patria, potremmo aggiungere che anche l'Europa sarà quel che il suo Mezzogiorno sarà.