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Fabrizio Bottini
Il collegio elettorale conservatore nell'epoca della sua riproducibilità tecnica
27 Ottobre 2017
Sinistra
Roverè Veronese è un comune montano di poco più di duemila abitanti, con un'economia agricola, turistica, e legata alla trasformazione del latte (segue)

Roverè Veronese è un comune montano di poco più di duemila abitanti, con un'economia agricola, turistica, e legata alla trasformazione del latte. È anche uno dei paesi che rivendicano la nascita di Bertoldo, paradigmatico contadino furbo. Ma soprattutto, Roverè è il luogo dove all'ultimo referendum sulla cosiddetta «autonomia», fortemente voluto dalla Lega Nord trascinandosi appresso quasi tutti gli altri, si è stabilito il record assoluto di votanti, col 76% degli aventi diritto che si è recato ai seggi, conquistandosi il titolo di capitale morale della «Repubblica Autonoma dello Zaiastan». Un territorio forse immaginifico e immaginario, questo dello Zaiastan, ma che come osservano molti analisti dei flussi elettorali si può anche fisicamente articolare su una mappa geografica seguendo determinati contorni e schivandone accuratamente altri. Il percorso logico dei vari approcci delle discipline sociali e politiche classiche al territorio ha però una caratteristica (forse una virtù, da quello specifico punto di vista) nel suo disegnare mappe, ed è una sostanziale a-spazialità. Vale a dire una tendenza prevalente a proiettare su un territorio tabula rasa qualche informazione semplice, che siano opinioni o fatti socioeconomici, e a volte poi provare a confrontarli e sovrapporli ad altri. Il che va benissimo ma spesso prescinde per sua natura dalla complessità spaziale che definisce luoghi e identità.

E se non altro rallenta, in questo lento e sostanzialmente casuale accumularsi di approssimazioni successive che vogliono essere analitiche e quantificabili, l'acquisizione del dato di sintesi, noto là dove questi processi o sono più sedimentati, o semplicemente hanno avuto un approccio meno disarticolato: non esistono in realtà degli specifici Zaiastan o territori dominati da qualche divinità politica con poteri spirituali e temporali magici, ma molto semplicemente dei territori fisici e socioeconomici che regolarmente orientano i propri consensi verso una certa offerta politica. Detto ancor più terra terra e in linguaggio volutamente brutale: l'idiotismo della vita rustica vota conservatore, l'aria della città rende liberi di votare progressista. E tutto questo, precisiamo, spesso indipendentemente da chi propone quelle istanze, vale a dire dal colore della bandiera che sta occasionalmente sventolando, destra, sinistra, centro, libertà, solidarietà, sussidiarietà e via dicendo. Capita però che l'intuizione di questo abbastanza inafferrabile cocktail si focalizzi su un simbolo, ed è allora che scattano al tempo stesso l'altra intuizione (proiettare sul territorio) e la confusione (inventarsi il Regno del Celeste o analoghi).

Caratteri del «contado» politologico: né densità né addetti agricoli
(skyline di Buccinasco da Milano, foto F. Bottini)
Forse non è un caso, se stavolta l'attenzione della politologia si è concentrata sul Veneto, ovvero sul territorio che da decenni ormai vanta quel proprio ambiguo neologismo socio-insediativo detto «città diffusa» per verniciare nobilmente l'obbrobrio ambientale dello sprawl, con una patina di millenaria speranza in un luminoso sol dell'avvenire. Nel territorio amministrativo lombardo adiacente il cosiddetto Zaiastan è forse meno lineare da definire, anche per via del nome diverso di Maroni, ma in realtà proprio nelle pianure e valli della Lombardia si può trovare esattamente conferma al medesimo fenomeno, semplicemente oscurato dall'incomoda presenza della Alamo milanese, oscena concrezione metropolitana (dal punto di vista della destra politica naturalmente) di valori meticci, genericamente progressisti, identitari giusto quando si tratta di trovare qualche etichetta Doc o Dop a valorizzare un prodotto locale. Una questione di densità edilizia, da analizzare su dati satellitari e rilievi campione locali come si fa col consumo di suolo per usi urbani? Certamente no, come ben sa chiunque si sia mai occupato della parolina magica sprawl: l'urbanizzazione dispersa pur avendo solidi intrecci con le infrastrutture di trasporto, l'impermeabilizzazione relativa del suolo, ciò che insomma il nostro conservazionismo spontaneo ha bollato da un po' con lo schifato termine «cementificazione», è ben altro.
È il vivaio, lo zoccolo duro e sinora inscalfibile, del consenso conservatore reazionario più incarognito, fabbrica di sostanziale antipolitica che vede nella triade famiglia-lavoro-piccola patria l'unico orizzonte di vita possibile, e tutto ciò che sta fuori di esso come incombente minaccia aliena. Il voto è l'equivalente del ringhio minaccioso del cane dal buio oltre la siepe della villetta o palazzina familiare, quell'idea di «casa mia» frattale che si moltiplica senza la soluzione di continuità di alcuno spazio pubblico. Posti dove solo certa forse strumentale fresconaggine ideologica da architetti-urbanisti post-qualcosa può cercare di infondere vaga aria di libertà, ribattezzando il tutto Urbs in Horto ovvero ripescando dall'Ottocento industrial-contadino una delle radici del pensiero suburbano classico. E in fondo ricercando, chissà perché e chissà come, l'ennesima uscita laterale «senza fratture» dalla tradizione contadina del localismo familiare. Mentre invece queste fratture, diciamo in altre parole questi conflitti, andrebbero addirittura promossi e somministrati ad hoc, anche se auspicabilmente governati. Altrimenti toccherà aspettare che quella frattura arrivi, senza ammortizzatori, dallo spazio globale esterno dentro cui anche quei processi di impropria urbanizzazione dispersa si collocano, lasciando che nel frattempo gli Zaia, i Maroni, e tutti gli altri che più o meno alla loro ombra campano di piccolo cabotaggio rappresentando interessi vari, con le loro politiche di «sviluppo del territorio» edilizio-autostradali, riproducano tecnicamente e per clonazione il proprio collegio elettorale ideale. Sarà anche il trionfo di Bertoldo, ma non c'è niente da ridere.
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