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Luciano Gallino
Il caso Bnl, il fisco e l’arte di eludere le tasse
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Si parla di speculazione. Ma non di quella intellettuale, di quella testimoniata dalle vicende dei “capitani coraggiosi”. Da la Repubblica del 23 agosto 2005

È stato calcolato da esperti che le sette società che hanno ceduto a Unipol le azioni Bnl in loro possesso hanno realizzato complessivamente, senza muovere un dito, o usandolo solo per cliccare sul mouse, un guadagno di 1,2 miliardi di euro. Hanno rastrellato circa un miliardo di dette azioni tra uno e due anni fa, pagandole 1-1,3 euro l’una; le hanno cedute a Unipol al prezzo convenuto di 2,7 euro. Da qui il guadagno, che gli addetti ai lavori chiamano plusvalenza. Ma la vera notizia non è la rilevante entità di questo, o la facilità con cui sarà conseguito. Essa va vista piuttosto nella entità risibile delle tasse che su tale guadagno le società cessionarie legalmente pagheranno: forse 20 milioni di euro, nel migliore dei casi, pari all’1,7 per cento della somma in questione.

Un simile regalo dello Stato è reso possibile da una specifica norma, denominata Pex (da participation exemption), contenuta nel Testo unico della legislazione fiscale. Essa prevede che siano totalmente esentate da ogni tassa le cessioni di azioni possedute da imprese a titolo di partecipazione in altre società, purché sussistano un paio di condizioni: che le azioni stesse siano state tenute in portafoglio per almeno un anno, e che la società partecipata esista davvero, né sia iscritta nella lista dei paradisi fiscali. Tali condizioni sussistono tutte nel caso Bnl, con alcune eccezioni personali alle quali si deve se il fisco incasserà almeno una ventina di milioni.

Se il cerchio si chiudesse qui, per evitare il ricorrere di analoghi doni alle società - sui quali si dovrebbe forse chiedere un parere ai milioni di persone che al fisco versano ogni mese un terzo del loro reddito come imposte dirette, e ogni giorno un altro 15% (in media) in forma di imposte indirette - basterebbe cancellare quanto prima la Pex. Come già hanno proposto esponenti del centrosinistra, nel caso in cui questo vincesse le elezioni. Il cerchio è invece molto più ampio, e di esso la Pex è solamente un capitolo modesto. La vicenda del capitale Bnl apre in realtà una finestra su una pratica delle imprese tra le più diffuse e gravide di conseguenze in Italia come nel mondo intero. Al di là di espressioni tecniche quali elusione fiscale o "minimizzazione delle imposte", tale pratica si può definire come l’arte di schivare le tasse.

L’esercizio di tale arte non presuppone soltanto l’abilità di sfruttare le pieghe della legge per pagare meno tasse, che è il significato comune di elusione fiscale. Richiede la capacità di organizzare la produzione a livello internazionale in modo che ciascuno dei suoi anelli sia assoggettabile a prelievi fiscali minimi o inesistenti. È quanto si fa, ad esempio, con il prezzo di trasferimento: le società di un gruppo dichiarano di vendere ad altre società dello stesso gruppo dei beni a un prezzo talora alto, talora basso, ma sempre determinato in modo che i profitti vengano a cadere giusto nel paese in cui l’imposizione fiscale è minore. Una procedura dalle enormi ricadute, a vantaggio delle imprese e a danno dei bilanci pubblici, posto che oltre la metà del commercio mondiale è costituito da simili scambi. La stessa arte presuppone la possibilità di pagare legioni di consulenti legali ed economici aventi una potenza di fuoco, nei tribunali, tale da schiacciare quella contrapposta del fisco. In Gran Bretagna, per dire, le quattro maggiori società di revisione contabile fatturavano nel 2002 quasi 6 miliardi di sterline, mentre il bilancio dell’ufficio centrale del dipartimento delle finanze che doveva tenere loro testa ammontava a meno di 40 milioni. In Usa, poco prima del crollo la Enron aveva speso 88 milioni di dollari di consulenze per evitare di pagare 2 miliardi di tasse federali. L’arte di schivare le tasse comporta infine di avere la capacità politica, ideologica e mediatica sufficiente per convincere i governi a emanare norme fiscali adatte a ridurre drasticamente l’imponibile, in modo da fare in pratica evaporare le aliquote sul reddito delle società – tipo, nel suo piccolo, la Pex.

Negli ultimi decenni l’arte di schivare le tasse, che si compendia nella contrapposizione tra pagare quanto si riesce a fare apparire formalmente legale e quanto invece sarebbe sostanzialmente equo, giusto, legittimo pagare, ha provocato in gran parte del mondo una forte erosione della base fiscale dei bilanci pubblici. Inoltre è stato operato su larga scala un trasferimento della tassazione dai redditi da capitale ai redditi da lavoro. In Italia, le tasse pagate da individui e famiglie rappresentano ormai il 43% delle entrate primarie dello stato; quelle delle imprese, il 6%. Dato non sorprendente, ove si pensi che secondo i dati della Cgia di Mestre oltre il 48% delle 723.000 società di capitali hanno dichiarato nel 2001, ai fini dell’imposta sulle società, un reddito negativo o pari a zero. D’altra parte negli Stati Uniti individui e famiglie pagano l’80% delle imposte federali; le imprese il 20%. Negli anni ‘50 il contributo di queste ultime superava il 40%. Per quanto attiene all’Unione Europea, già qualche anno fa la società di revisione Deloitte & Touche stimava che lo schivamento delle tasse fosse dell’ordine di 140 miliardi di euro l’anno. È in cifre di questo genere che andrebbero cercate alcune ragioni almeno dei deficit dei bilanci pubblici, che costringono in molti paesi a ridurre prestazioni sanitarie e servizi scolastici, insegnamento e ricerca universitaria, trasporti collettivi e pensioni, indennità di disoccupazione e protezione sociale per le famiglie.

Il cerchio si può quindi chiudere con il richiamo a una contraddizione. Dopo i tanti scandali societari del periodo 2000-2003, dalla Enron alla WorldCom alla Parmalat, si è registrato uno straordinario sviluppo del dibattito e delle iniziative in tema di responsabilità sociale delle imprese (Rsi). Centinaia di codici, a livello internazionale, nazionale e societario, sono stati redatti al fine dichiarato di introdurre maggiori quote di moralità, di attenzione ai portatori di interesse che non si collocano tra gli azionisti, nella gestione delle imprese. Ora si nota che in tali codici - ma lo stesso può forse dirsi di gran parte degli innumeri articoli sulla Rsi - il dovere per i manager di astenersi dall’arte di schivare le tasse utilizzando tutti i mezzi disponibili per fare rientrare nella legalità tale comportamento, in contrasto stridente con una comune nozione di equità e giustizia sociale, non è quasi mai menzionato. Alla fine, persino la vicenda del capitale Bnl, presa qui come spunto per toccare un tema ben più generale, potrebbe risultare utile alla collettività se fosse l’occasione per provare a inscrivere nei codici societari dedicati alla responsabilità sociale dell’impresa, magari a pagina uno, articolo uno, il suddetto fondamentale dovere.

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