Le cronache, parole e soprattutto immagini, della manifestazione leghista di Milano contro l'ingresso della Turchia nell'Unione europea rimettono a fuoco l'immagine troppe volte edulcorata della Lega. Lontani i tempi in cui, meno di una decina d'anni fa, ci si poteva far sedurre dal suo populismo fino a interpretarla, come fece qualche dirigente diesssino, come «una costola della sinistra», la creatura di Bossi ha nel frattempo dissolto ogni equivoco confermandosi via via per quello che è: una formazione neoidentitaria, xenofoba e fondamentalista, che in Italia ha incarnato e per certi versi anticipato quel movimento di resistenza neoidentitario, xenofobo e fondamentalista alla globalizzazione che in tutto il mondo ha preso e prende forme diverse, non sempre ascrivibili alla stessa intenzionalità politica ma tutte accomunabili sotto la medesima spinta regressiva. Tuttora poco ponderati, tuttavia, restano gli effetti sociali e culturali che il movimento in camicia verde ha seminato nell'Italia degli ultimi quindici anni nel proprio campo (e anche in quello altrui): troppo attento a contabilizzare l'influenza della Lega in voti e percentuali, e troppo affezionato a sottolineare le differenze all'interno dell'attuale maggioranza di governo, il discorso politico corrente finisce per sottovaluttarli. Com'è evidente dal caso Turchia, in cui la sottolineatura delle divisioni interne ai partner di governo rispetto al suo ingresso nella Ue finisce col lasciare in ombra le consonanze culturali che li tengono insieme. Quando Ignazio La Russa o Marco Zacchera, An, o Antonio Tajani, Fi, «attaccano» la Lega e «difendono» l'ingresso della Turchia in Europa, lo fanno impugnando, al rialzo, gli stessi argomenti che la Lega usa contro di esso: apreire alla Turchia serve a combattere meglio il fondamentalismo islamico, a sbarrare meglio la strada agli immigrati, a difendere meglio le radici cristiane europee. Sì che non ha torto Marco Pannella quando vede nella manifestazione anti-turca della Lega non un fattore di divisione della maggioranza ma un collante della crociata culturale di ampio raggio che essa sta portando avanti, con l'aiuto consistente di potenti giornali e potenti tv, in più puntate, dal caso Buttiglione in avanti.
Oltre all'offensiva scatenata, con tanto di alleanza fra monsignor Ratzinger e la seconda autorità dello stato Marcello Pera, sulle radici cristiane dell'Unione, una puntata significativa e ritornante della suddetta crociata è quella che riguarda lo stato di crisi del multiculturalismo. Dopo l'efferato assassinio ad Amsterdam, il 2 novembre scorso, del regista Theo Van Gogh da parete di un terrorista islamico di origine marocchina con regolare cittadinanza olandese, l'argomento è diventato molto in voga su svariate testate, dal Foglio alla Stampa al Corsera. Non che la materia non ci sia: l'allarme scatta casomai in ritardo, tutti i termini della questione essendo stati già messi sul tappeto nella stessa Olanda già con l'omicidio di Fortuyn nel maggio del 2002, come all'epoca segnalammo su queste stesse colonne. Ma quello che stupisce oggi, a fronte dell'enormità del problema, è la tonalità predominante della diagnosi - il multiculturalismo è fallito a causa di un eccesso di tolleranza, di libertà, di pluralismo - e dei rimedi - rinsaldare l'identità europea contro gli intrusi, spingere di più e più selettivamente il pedale dell'assimilazione dei diversi, smetterla di equiparare la «nostra» civiltà alla «loro». Laddove la paralisi del multiculturalismo, che certo risale anche alla progressiva trasformazione della tolleranza in indifferenza, del politically correct in ipocrisia e del pluralismo in incomunicabilità di ghetti identitari, avrebbe bisogno per sbloccarsi di un di più di esposizione all'altro, di contatto e contagio fra differenze irriducibili, di traduzione culturale. E non è curabile con iniezioni di assimilazione, come dimostra lo stato del modello integrazionista francese, non meno in crisi - vedi la vicenda della legge sulla laicità - di quello di marca olandese o americana.
Il fatto è che su questa e consimili questioni il contrattacco neocons, in Italia come altrove, cade in una insanabile contraddizione. La crisi del multiculturalismo porta a galle aporie originarie del modello democratico, nella doppia versione anglosassone e francese, che non si può sperare di sanare invocando il ritorno alla presunta purezza tradita del modello stesso. Come non si può invocare il ripristino di una incontaminata purezza delle radici europee in tempi di globalizzazione avanzata. O il protezionismo culturale in tempi di contaminazione transculturale accelerata. O il «mamma li turchi» in un continente in cui di turchi ne vivono già più di 4 milioni. Il contrattacco neocon collasserebbe per insensatezza, se solo ci fosse, dalle parti della sinistra, una cultura in grado di spingere l'immaginazione del presente oltre le colonne d'Ercole della crisi dei modelli della modernità. Non c'è, e Milano ospita ancora manifestazioni come quella di domenica.