Guido Bertolaso resisterà fino alla fine: il terremoto che la notte del 6 aprile 2009 rase al suolo L'Aquila e uccise 300 persone, non era prevedibile. Gli allarmi, le 400 scosse registrate nei quattro mesi precedenti, il verbale della rapidissima riunione degli esperti fatto firmare la sera stessa del sisma, le relazioni di Giuliani, valgono poco, l'inchiesta della procura de L'Aquila ha un unico obiettivo: distruggere la Protezione civile. La "sua" Protezione civile, quella che insieme con Silvio Berlusconi ha modellato nel corso degli anni. Non più organismo che cerca di prevedere col concorso di esperti e tecnici le catastrofi naturali e di mitigarne i disastrosi effetti, ma ente con poteri smisurati che si sovrappongono alle competenze di ministeri, Regioni e Comuni, che agisce al di fuori e al di sopra delle leggi correnti, delle normative sugli appalti, insofferente alle lentezze delle burocrazia e ai controlli. Tutto in nome dell'emergenza.
Le grandi catastrofi hanno distrutto tante carriere politiche nel corso della storia italiana, per Silvio Berlusconi non è stato mai così. Dal terremoto di San Giuliano di Puglia a L'Aquila. La ricetta è sempre la stessa: trasformare una tragedia in grande occasione mediatica, alle telecamere che inquadrano lutti e macerie, gente infreddolita e donne in lacrime, vanno subito affiancati i microfoni che trasmettono il verbo dell'efficienza e del fare. San Giuliano avrà la sua scuola, sarà moderna e bellissima e con le lavagne luminose, i terremotati aquilani avranno subito una casa, bella e sicura. Tutti dimenticheranno lutti, sofferenze e responsabilità. È il governo del miracolo. A L'Aquila si sta ancora scavando quando, e sono le 21:40 del 6 aprile, nel salotto di Porta a Porta, Silvio Berlusconi annuncia che costruirà le "new town". Se la ricostruzione ha tempi lunghi, una ventina d'anni nell'Irpinia del terremoto del 1980, almeno una decina in Abruzzo, è il calcolo ottimistico degli esperti, noi faremo nuove città. Un'idea che Berlusconi e il governo avevano già nel cassetto e che Bertolaso e la sua Protezione civile sposano subito. È costosa, 710 milioni, 2.500 euro a metro quadro per ogni appartamento, tanto è costato il Progetto Case a L'Aquila e dintorni, devasta il territorio (venti aree nel capoluogo abruzzese e nei comuni limitrofi, 100 ettari occupati per le abitazioni più 30 per le infrastrutture), ma assicura tempi di realizzazione rapidissimi e folgoranti inaugurazioni.
Al progetto delle new town il premier stava lavorando da mesi, ben prima del terremoto. In Italia ne vorrebbe costruire un centinaio, come ci racconta "Progetti e concorsi del 2 maggio 2009". "Il piano delle 100 New Town partirà da L'Aquila. Il progetto caro al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha trovato – proprio nel terremoto – una inaspettata occasione. Solo pochi giorni prima del sisma, il premier ha chiesto a un imprenditore veneziano una ipotesi di nuova città, sulla base di alcune indicazioni. L'idea, supportata dall'avvocato Niccolò Ghedini, è stata trasmessa personalmente dal premier all'imprenditore Andrea Mevorach, il quale ne ha recepito i contenuti e ha trasferito al suo team la filosofia del progetto".
Mevorach è un imprenditore veneziano attivo nei settori dell'occhialeria, della meccanica e dell'immobiliare, si occupa anche di sviluppo per conto di fondi immobiliari riservati ed è da anni socio dello Yacht Club Costa Smeralda. La sua idea viene subito adattata all'"inaspettata occasione" del terremoto, venti new town, inaugurate dal premier con grande dispiego di telecamere compiacenti, case tutte uguali e con gli appartamenti già arredati. Quartieri dormitori senza servizi che hanno già compromesso il futuro urbanistico della città, denunciano gli aquilani. Ma per realizzare il progetto serviva anche altro: espropriare i comuni delle proprie prerogative in materia di uso del territorio, e militarizzare le tendopoli. Una sorta di modello "choc economy", anche se più paternalistico e televisivo. Oggi Naomi Klein lo chiama "capitalismo dei disastri", vent'anni fa l'economista Ada Becchi Collidà, che studiò a lungo il dopo-terremoto in Irpinia, lo chiamò "economia della catastrofe". Il risultato è lo stesso: imprenditori pronti all'assalto della ricostruzione. Un "male" che Ignazio Silone aveva visto dopo il terremoto di Avezzano. "Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformerà in occasione di più larghe ingiustizie, e la ricostruzione edilizia per opera dello Stato una calamità assai più penosa del cataclisma naturale". Era il 13 gennaio 1915.