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Da quando imperversa B., la politica italiana è anche psicodramma ciclico. Diviso tra Palazzo Chigi, via del Plebiscito, la reggia d’Arcore e le ville, l’uomo delle decisioni va a soprassalti. Ad esempio, intavola la revisione delle norme sul lavoro, dov’è garantita la stabilità, salve risoluzioni da giusta causa: i destini d’Italia dipendono da lì, proclama; è nato con l’iperbole in bocca. La mossa mette a soqquadro lo scenario: Cisl e Uil siedono al tavolo; Cgl, no; a sinistra scattano i riflessi dialoganti già rifulsi nella sagra bicamerale. «Non basta dire no», ammonisce una bibbia riformistica edita dal presidente del Consiglio, i cui torchi stampano anche i pensieri del leader ex-comunista; e l’affare sarebbe grosso se i tempi editoriali non fossero lenti rispetto alle folgori d’Arcore. L’articolo 18 non interessa più, annuncia il demiurgo. Da archiviare. Che le verità politiche mutino, anche due volte al giorno, lo sapevamo da Orwell, "1984". Con la stessa smemorata labilità gl’interlocutori ripigliano il filo. Nel nostro caso l’ammonimento resta valido, perché B. sferra una questione ancora più capitale: "riforme istituzionali"; a sinistra balenano i soliti riflessi; e come cantano i criptoberlusconiani chierici d’un equivoco bipolarismo.
Nessuno s’era accorto che abbiamo bisogno d’alchimie costituzionali. Non viene prima l’economia malata? Stiamo regredendo a paese senza futuro. Infatti, le riforme sono anche diversivo. L’unico al quale giovino è l’imbonitore. Aveva garantito miracoli: dopo 6 stagioni chi vuol vedere curve all’insù legga costo della vita, disoccupati, debito pubblico; invisibili gl’investimenti produttivi; il metabolismo langue, a parte i malaffari stimolati dalla sua politica del diritto (vedi appalti Inail). Tale il consuntivo taumaturgico: e presentandosi dagli schermi, martedì 30 dicembre, in sguaiata competizione col capo dello Stato, racconta che ogni punto del programma sia cosa fatta, in anticipo sui tempi; vanta anche mirabilia sullo scacchiere internazionale, dove infatti non s’erano mai visti gesti fescennini pari ai suoi; le corna al ministro spagnolo resteranno negli annali, come la mossa d’anca davanti alla banda. Irradia simpatia e calore umano, salmodiano finti indipendenti, né trovano da ridire quando confida d’essere adorato dal pubblico, o rivendica gusti così liberali nella gestione dell’impero editoriale da essersi signorilmente allevato il dissenso; i più fieri oppositori li ha in Mediaset, e ride da un orecchio all’altro. Lasciamolo alle pantomime. Ha l’acqua alla gola: tutti fuorché gl’inebetiti dalle sue televisioni lo vedono inadempiente, bugiardo, ingordo, inetto, sopraffattore; sedersi al tavolo delle riforme in posa collaborante significa concedergli il diversivo del quale ha bisogno; nel bargain imbroglia anche i diavoli; e se l’opposizione l’asseconda, gli elettori reagiscono d’istinto, votandolo. Sarebbe stupido votare dei mestieranti che gli reggono la coda.
Le imprese costituenti presuppongono idee comuni e fiato morale. Dove i dissensi investano gli assiomi (a esempio, Italia 1925 o Germania 1933), è transfuga o suicida l’oppositore cooperante. Consideriamo due punti: l’alternanza sarebbe impostura se tra i contendenti uno fosse padrone dei media; o mandasse al diavolo l’indipendenza della magistratura infeudandosi procure, tribunali, corti. Ora, la campagna delle riforme non è solo diversivo. Eccome le vuole nel solito stile leonino. Anche i meno informati ormai sanno da quali avventure venga, chi sia, dove punti, in che modo. Dalle tribune elettorali s’impegna a risolvere il conflitto d’interessi, non sognandoselo nemmeno: senza l’ordigno con cui entra nelle teste, sarebbe solo un ricchissimo gesticolatore da avanspettacolo, talvolta divertente, con qualche lieve disturbo (Io ipertrofico, fughe dalla realtà, disinvoltura mistificatoria); del fraudolento ddl ora sepolto alla Camera nessuno parla più; e sapete perché?; perché l’argomento interessa solo al 7% degl’italiani. Sfolgora l’abituale analfabetismo politico. In compenso dissesta i quadri della legalità rabberciandosi leggi che lo salvino dai giudizi pendenti. Sono l’unica impresa energicamente condotta nei 18 mesi. Roba ignota al mondo evoluto: i nomi affioranti dalla memoria sono Batista il cubano o Ceausescu, più qualche regolo dell’Africa nera; succede anche nei regimi fondati sul narcotraffico. Poche settimane fa auspica una repubblica presidenziale, candidandosi. Vuol essere solo, capo dello Stato e del governo, padrone com’era ed è nell’universo Mediaset (solo i finti ignari lo presuppongono virtuosamente lontano dalle sue creature): al massimo tollera un presidente che passi in rassegna picchetti d’onore, baci bandiere, canti l’inno, segua funerali, inauguri mostre, consegni diplomi, visiti i luoghi delle sciagure; tutto fuorché interloquire de re publica. Tali essendo i fini, una seconda Bicamerale avrebbe un titolo, "Dialoghi dell’agnello col lupo". Bonapartismo d’Arcore? A parte l’epica familiare, Luigi Napoleone significava borghesia vitale, codici, giurisprudenza colta, prefetture, espansione economica, carriera aperta ai talenti. Ometto l’analisi comparata delle persone, inutilmente crudele, ma bisogna domandarsi cosa vi sia dietro B. Risposta: Mediaset ovvero tecnologia dell’inebetimento collettivo, raccolta pubblicitaria, vertigine d’affari, più qualche incognita buia. Nominiamone due: cambiali siciliane sui 61 collegi; e una giustizia discriminata secondo classi, partiti, persone, feroce col bestiame umano, disattenta o riguardosa verso i colletti bianchi malfattori, purché stiano dalla parte giusta.
Entriamo nel merito. Quali riforme? Primo: premier eletto dal basso ovvero cesarismo populistico, con dei pericoli così evidenti che sarebbe torto ai lettori segnalarli; secondo, dev’essere forte. Aggettivo da intendere alla lettera: che chiami e dimetta ministri, rimescoli i dicasteri, sciolga le Camere; così comanda a fischi, garantendosi fedeltà canina. Tutti a casa, ringhiava l’on. G. Pecorella, avvocato del padrone e suo mandatario negli affari legislativi che gli premono, se qualcuno si fosse azzardato a toccare l’aurea l. Cirami. Esiste un precedente nella l. 24 dicembre 1925 n. 2263, quando da primus inter pares, Mussolini diventa capo del governo: mediante decreto regio (un riflesso automatico) nomina e revoca i ministri, suoi arnesi animati; varia nome, numero, competenze dei ministeri; se vuole, li assume personalmente, delegando date funzioni ai sottosegretari; ogni odg parlamentare richiede il suo assenso preventivo (norma superflua anno Domini 2003: le Camere gli ubbidiscono, essendo un prodotto dei media; e durano finché lui voglia; la minaccia dello scioglimento spegne eventuali velleità frondiste). Le fonti archivistiche dicono gli effetti. Nei 40 mesi 23 giugno 1919-31 ottobre 1922 sfilano 6 ministeri: due volte Saverio Nitti (11 mesi, poi 24 giorni); Giolitti, alla quinta e ultima apparizione, vecchio revenant soverchiato da fenomeni ignoti (poco più d’un anno); Ivanoe Bonomi, socialriformista, funesto interlocutore del partito ormai dominante (8 mesi scarsi); due volte Luigi Facta, ridicolo, imbelle, infìdo giolittiano (complessivamente 8 mesi). Instabilità morbosa ma non indica salute l’unico ministero Mussolini, durato 20 anni, 8 mesi, 25 giorni, dove fluttuano 81 ministri, presi ex nihilo, commutati, estromessi, senza contare gl’interim mussoliniani (Interni, Esteri, Colonie, Guerra, Marina, Aeronautica, Corporazioni, nemmeno avesse i tentacoli d’un polipo e cervello leonardesco). Questa cronologia avalla qualche dubbio sulla compatibilità d’alternanza e premier forte. Montecitorio vota le norme sul Capo del governo senza discuterle. A Palazzo Madama l’unico dissidente è Gaetano Mosca, fondatore d’una scienza e psico-sociologia politiche: «assistiamo alle esequie» del regime parlamentare; e «non avrei mai creduto d’essere il solo» a tenere «l’elogio funebre» (19 dicembre 1925).
Le conclusioni saltano fuori da sole. Non ha senso ventilare nuove alchimie costituzionali finché B. sia padrone dei cervelli attraverso il monopolio degli schermi. È pregiudiziale assoluta risolvere sul serio il conflitto d’interessi. Filare intese rebus sic stantibus sarebbe degno d’un L. Facta, becchino del parlamento. Vuol riscrivere la Carta? Siccome ha i numeri, nessuno può impedirgli d’intavolare l’argomento e relativa agenda. Tutto sta nel non negoziare l’anima. Può darsi che vinca anche stavolta (non è ancora detto), ma la platea guarda, capisce, valuta: chi ha giocato la partita onorevolmente, mieterà voti; inutile dirlo, ci vogliono antagonisti credibili. Forse conviene ripeterlo. Gli elettori sono meno stupidi di quanto lui e qualche suo avversario perdente postulino: l’hanno visto e pesato; misurano i pericoli; esistendo un’alternativa seria, la sceglierebbero; ma lo preferiscono a oppositori equivoci che siedano compunti al suo tavolo. Nemmeno io avrei dubbi, dovendo scegliere tra il diavolo en titre e mezzi angeli frequentatori dei salotti infernali.