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Roberto Mania
Il Belpaese della disuguaglianza metà ricchezza al 10% degli italiani
5 Luglio 2010
Articoli del 2010
É da qualche decennio che la critica sociale racconta che il prezzo della globalizzazione capitalistica è l’aumento delle diseguaglianze, ma per troppi "there is no alternatives". La Repubblica, 5 luglio 2010

Don Paolo Gessaga la spiega così, quasi con uno slogan pubblicitario: «La povertà non è più "senza fissa dimora"». La povertà è accanto a noi. Diffusa e afona, al pari della diseguaglianza. «È meno apparente, ma è più profonda», aggiunge il sacerdote che ha fondato la catena degli empori della Caritas. Dalla sua parrocchia di San Benedetto in via del Gazometro a Roma, nel quartiere popolare Ostiense, questo cinquantenne arrivato dal varesotto, vede, e tocca, da vicino le nuove povertà e le nuove diseguaglianze, coda velenosa della Terza Depressione mondiale come l´ha chiamata il premio Nobel per l´economia Paul Krugman. La crisi ha accentuato le diseguaglianze e frantumato anche la middle class italiana. Siamo diventati tutti americani. E l´Italia, in termini di reddito, è un paese sempre più diseguale: ricchi e poveri, giovani e anziani, uomini e donne, nord e sud. L´eguaglianza non c´è più, né si ricerca, e le distanze si allargano. Lo dice Don Paolo, lo certificano l´Ocse e la Banca d´Italia. Peggio di noi, tra le nazioni cosiddette sviluppate, solo il Messico, la Turchia, il Portogallo, gli Stati Uniti e la Polonia.

E forse non è neanche più un caso che l´indice per misurare il tasso di diseguaglianza nella distribuzione del reddito sia stato definito nel secolo passato da uno statistico-economista italiano: Corrado Gini. Forse era già quello un segno premonitore. Ecco, il "coefficiente Gini" ci dice quanto siamo peggiorati. E peggioreremo ancora se è vero che la discesa ha subito un´accelerazione con la recessione precedente, quella dei primi anni Novanta. Meno profonda di questa e più celere nell´abbandonarci, però. «L´esperienza del 1992-93 quando l´economia italiana attraversò una fase severamente negativa, suggerisce che a una crisi economica può seguire un persistente aggravamento della diseguaglianza», ha scritto l´economista della Sapienza di Roma Maurizio Franzini, nel suo recente libro "Ricchi e poveri" (Università Bocconi editore). Basterà aspettare i prossimi mesi.

Più basso è l´indice Gini più eguale è la società. Il nostro indice Gini arriva a 35. In Polonia è 37, negli Stati Uniti 38, in Portogallo 42, in Turchia 43 e in Messico 47. La Francia ha un coefficiente del 28 per cento e la Germania, nonostante gli effetti della riunificazione est-ovest, è al 30. In alto i paesi dell´uguaglianza, l´Europa del nord: la Danimarca e la Svezia con un coefficiente Gini del 23 per cento.

C´è anche un altro modo per misurare la diseguaglianza, dividendo la popolazione in decili: il 10 per cento più ricco e il 10 per cento più povero per poi calcolare quante volte il reddito del primo gruppo supera il secondo. Anche qui siamo messi male, malissimo: gli italiani più ricchi hanno un reddito superiore di dodici volte quello dei più poveri. Certo, in Messico questo rapporto sale a 45, ma nella vecchia Europa ci supera solo la Gran Bretagna con un rapporto che sfiora il 14, mentre la Germania è al 6,9, la Spagna al 10,3, la Svezia al 6,2. Conclusione di una ricerca dell´Ires appena uscita ("Un paese da scongelare", di Aldo Eduardo Carra e Carlo Putignano, edito da Ediesse): «In Italia i ricchi sono più ricchi, il ceto medio è più povero e i poveri sono molto più poveri». E così, in un decennio le diseguaglianze si sono accresciute di oltre cinque punti. Il coefficiente Gini era 29 nel 1991, poi è salito al 34 nel 1993. E ora - si è visto - è al 35. Ma nulla fa pensare che si fermi lì. Anzi: tutto fa pensare il contrario. Altri paesi - la Spagna, per esempio - si sono mossi in direzione esattamente opposta.

La ricchezza è saldamente nelle mani di pochi e lì ci rimane, impedendo la mobilità sociale, condizionando le carriere, costruendo pezzo per pezzo una parte della nostra gerontocrazia. Secondo l´ultimo dato della Banca d´Italia contenuto nella periodica indagine su "I bilanci delle famiglie italiane", il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede quasi il 45 per cento dell´intera ricchezza netta delle famiglie. Un livello rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi quindici anni.

Partecipiamo non sempre consapevolmente a un processo di divaricazione che spinge la classe media verso il basso, i super-ricchi verso l´alto e affonda i più poveri. «Che oggi sono anche in giacca e cravatta, basta guardare come sono cambiate le persone che almeno una volta al giorno vengono a mangiare alla Caritas», racconta Don Paolo da quello che è un osservatorio strategico anche perché Roma è fondamentale nell´attribuire al Lazio il primato negativo della regione più diseguale d´Italia con il 33,9 di coefficiente Gini. Pesano, nella Capitale, ma non solo qui, il caro-casa e la precarietà del lavoro. In alto, la regione italiana dell´eguaglianza è il Friuli Venezia Giulia, regione a statuto speciale, laboriosa e dal benessere diffuso. L´eguaglianza è anche questo. E, probabilmente, è anche uno dei fattori che porta la provincia di Trieste a un triplo primato: l´età media più elevata tra le province del nord-est, la più alta percentuale di anziani oltre il 65 anni (30,2 per cento), e l´incidenza più elevata di residenti con 80 anni e più (11,2 per cento). Anche nel 2028 - secondo la Fondazione Nord-Est - Trieste manterrà i primati. Perché l´eguaglianza - è la tesi originale che Richard Wilkison e Kate Pickett illustrano nel loro "La misura dell´anima" (Feltrinelli) - migliora «il benessere psicologico di tutti noi». Di più, secondo i due studiosi: «Tanto la società malata quanto l´economia malata hanno le proprie origini nell´aumento della diseguaglianza». E infatti due economisti come Jean-Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz pensano che all´origine della grande crisi provocata dai mutui subprime ci sia proprio l´aumento delle diseguaglianza che, ad un certo punto, ha fatto implodere il sistema finanziario.

Di certo tra i frutti di questa "economia malata" ci sono i working poor, i lavoratori poveri, più tute blu che colletti bianchi, ma ci sono anche - lo abbiamo visto - gli impiegati, la classe di mezzo. Un fenomeno che in Italia non avevano ancora conosciuto in queste dimensioni ma che è anch´esso conseguenza di una diseguaglianza crescente. Tra gli operai i "poveri" sono il 14,5 per cento. Percentuale che si impenna fino a sfiorare il 29 per cento nelle regioni meridionali. Il "caso Pomigliano" ha fatto riscoprire la classe operaia e anche la distanza abissale di reddito tra l´amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, e i suoi turnisti: il primo guadagna 435 volte di più dei secondi.

Nemmeno la recessione è stata, ed è, uguale per tutti. I giovani stanno pagando più caro. È l´Istat che lo certifica nel suo Rapporto annuale: «La crisi ha determinato nel 2009 una significativa flessione dei giovani occupati (300 mila in meno rispetto all´anno precedente), i quali hanno contribuito per il 79 per cento al calo complessivo dell´occupazione». Un giovane su tre è senza lavoro. Un giovane - ricordano Tito Boeri e Vincenzo Galasso nel loro "Contro i giovani" (Mondadori) - guadagna il 35 per cento in meno di chi ha tra i 31 e i 60 anni (era il 20 per cento negli anni Ottanta). Ecco: così, partendo dal basso, si costruisce un paese diseguale.

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