Il manifesto, 2 giugno 2016 (p.d.)
Ad Idomeni non c’è più nessun dio. È zona sconsacrata. Nessuno può entrare. Un cimitero di tende e lamiere, raschiate dalle ruspe dello sgombero. Posti di blocco ovunque, la polizia presiede le strade, chiede i documenti, la nazionalità è fondamentale in questi casi. «Ma voi siete volontari?», è la domanda. Poi, lo sguardo fermo. «Cittadinanza italiana», si legge sulla carta d’identità.
«Volontari sicuramente – dice Francesco Scardaccione, barese, 23 anni – ma prima di tutto siamo attivisti provenienti da tutto il mondo, completamente autonomi, slegati dalle organizzazioni governative e dalle Ong…». Francesco è uno di quelli che ha visto intere famiglie sbarcare a Lesbo in fin di vita. Francesco è l’attivista che ha tirato su un forno con un gruppo di iraniani, dove si impastava il pane e la pizza. Francesco è uno dei tanti che ha vissuto per due mesi nel campo di Idomeni, i suoi vicini di tenda erano siriani. «Costruiamo insieme ai migranti la solidarietà, condividiamo mezzi, strumenti, problematiche e possibili soluzioni». Il mutuo soccorso, il piano è umanitario, l’esodo è costante e inarrestabile, «Scarpe rotte, pur bisogna andare, tutti insieme», indicando la Macedonia.
Nonostante lo sgombero, gli attivisti sono sempre qui. In centinaia infatti sono rimasti, a decine ne stanno arrivando, per monitorare la situazione, per denunciare «le condizioni indegne dei campi militari nei dintorni di Salonicco», per fare informazione. Il sito di Melting pot Europe sforna resoconti costanti, giornalieri, la pagina facebook di Communia.net carica le foto degli attivisti presenti, le immagini del calvario. Un mondo tranciato da muri e dalle bombe, spaccati generazionali e culturali a confronto. L’intento, mostrare le mistificazioni, rendere visibile ciò che è invisibile nella cortina di fumo e afa che circonda l’area che va da Policastro a Salonicco.
Curdi, siriani e iracheni, migliaia di persone sono state deportate in questi centri. Syndos Frakapor ad esempio, un ex magazzino, un hangar gigantesco e fatiscente, riconvertito a campo militare. Il distretto industriale di Salonicco attorno, fabbriche dismesse e abbandonate, le insigne rosicchiate dalla crisi economica che ha sconvolto la Grecia. 800, i curdi ammassati nella tendopoli. «Abbiamo poca acqua, il cibo scarseggia. Una ventina di bagni chimici per quanti ne siamo e nessuno viene a pulire da una settimana», racconta Imad, capelli bianchi, fuggito dalla Turchia di Erdogan, con il Buzouki sotto braccio.
Imad aveva stretto amicizia con Francesco al campo di Idomeni. Si abbracciano, rievocano aneddoti, si prendono in giro. Imad aveva impacchettato, inforcando due pezzi di legno e uno straccio incerato di una tenda devastata dalla pioggia e dal vento, un aquilone su cui avevo scritto «Rojava, Kurdistan». L’aquilone svettava sulla tendopoli, lo ricordano tutti. La polizia puntella i cancelli del campo, gli attivisti fanno foto, prendono appunti
«Se non ci fossero i volontari, saremmo invisibili, nessuno parlerebbe di noi, tutti ci dimenticherebbero – continua poi, sorridendo al flash delle foto – a Idomeni si stava meglio, facevamo le nostre cose, vivevamo!»
«Niente giornalisti», intima il militare all’entrata, quasi ad interrompere quel minimo di connubio umano raffazzonato in pochi minuti. «Il governo greco sembra che voglia nascondere l’emergenza umanitaria in un recinto di filo spinato e di ossequioso silenzio. Non è un caso che L’Europa abbia sbloccato la tranche da 11 miliardi lo stesso giorno in cui Idomeni veniva evacuata», dice Stefano, il quaderno in mano, trapiantato oramai in Grecia dalla lontana Bolzano, salutando Imad in lontananza. Azzittire, rendere invisibili, nascondere ovunque il tacito accordo con la Turchia. La firma è quella di Alexis Tsipras. I campi militari invece, 11 per l’esattezza, una corona di cemento e detenzione millantata ad asilo, alle porte della Macedonia, sono responsabilità della fortezza Europa.
«Quanto resti?» Abud, siriano di Damasco, mentre sorseggia un bicchiere di Chai.
«Non saprei dove andare», ironico, scrollando le spalle, Pigi, attivista italiano.
Eko station, un campo informale, occupato da migliaia di migranti, non autorizzato, una distesa di tende e tendoni sull’asfalto della stazione di rifornimento. «Non abbiamo accettato di entrare nei campi militari per paura che il mondo ci dimenticasse, aspettiamo…», dice Abud, accendendosi una sigaretta. A giorni è previsto lo sgombero di tutti i campi “illegali”. L’atmosfera è tesa. Più di quattro mila persone rischiano la prigionia e il rimpatrio forzato.
Qui però gli attivisti si fanno sentire, possono entrare. Camuffati dal circo mediatico in un problema da estirpare, ovunque invisibili, a gran voce, una trentina di italiani della staffetta #overthefortress ha installato una radio, con casse musica e microfoni. La frequenza è 95.00, Radio No Borders. I siriani cantano, ballano. Le persone si accalcano.
Abud studiava per diventare un veterinario e nel tempo libero si dilettava a strimpellare qualche canzone. Improvvisa, gorgheggiando, l’inno dell’esercito libero siriano. «Quando tornate, ve lo recito in italiano», con applauso finale, è ovvio.