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Giorgio Ruffolo
I rischi della finanza
20 Luglio 2007
Articoli del 2007
“Tre fantasmi si aggirano per il mondo: clima, terrorismo, finanza”. Da la Repubblica del 19 luglio 2007

Tre fantasmi si aggirano per il mondo: clima, terrorismo, finanza. Quest’ultimo sembra il meno pericoloso. C’è chi non lo vede proprio. Ma potrebbe essere il più imminente. I segnali di allarme si infittiscono. Sulla Repubblica del 4 luglio, Federico Rampini avvertiva: «Torna la paura del grande crac finanziario: i bond aziendali non si vendono, i tassi salgono, scricchiolii negli hedge fund». Il Financial Times si chiede in termini problematici che ne è di un capitalismo riplasmato da una finanza incontrollata. L’Economist si preoccupa dei guai dei private equity funds. E da ultimo è diventato attuale anche l’argomento più inquietante: la parte della popolazione americana che ha rischiato maggiormente non è più in grado di pagare il mutuo della propria abitazione. E ciò rischia di sconvolgere il sistema creditizio, con le conseguenti ricadute sull’economia generale.

Non è da oggi, del resto, che ci si preoccupa della possibile insostenibilità di una espansione finanziaria, che è passata da una dimensione pari a quella del prodotto mondiale globale nel 1980, a una tre volte superiore nel 2005 (i dati sono del McKinsey Global Institute). La domanda che naturalmente ci si pone è: come mai questo enorme divario non si è tradotto finora in un processo inflazionistico?

Molta parte della non facile risposta sta, probabilmente, nello straordinario apparato di strumenti di assicurazione e di copertura, come i "derivati", prodotti da una intelligence finanziaria che ha dimostrato un ammirevole grado di ingegneria professionale. Mai il mercato finanziario internazionale ha esibito una così ampia tastiera di scelte a disposizione del risparmiatore. Questa ricchezza nasconde però un formidabile rischio. Ogni aumento delle possibilità di copertura comporta un aumento delle "scommesse". E’ come se, per scongiurare una depressione, si moltiplicassero gli eccitanti. Gli strumenti di "copertura", come si sa, sono anche occasioni offerte alla speculazione. Il gioco regge, comunque, fin quando l’economia reale, nel suo insieme, aumenta: ed è ciò che avviene in effetti nel mondo, a un ritmo anch’esso accelerato. Ma i due aumenti hanno ritmi diversi. Che cosa può avvenire se il divario tra queste due "corse" continua a salire? Non c’è il pericolo che una tensione crescente tra queste due dinamiche possa provocare un arresto, un infarto? Non è che questo rischio si è accentuato, in questi ultimi tempi? Se un arresto, in qualche parte del mondo, dovesse propagarsi sistemicamente – ci si è andati molto vicino alla fine degli anni Novanta – la prospettiva di un rotolamento all’indietro diventerebbe catastrofica. Il 1929 è un numero che nessuno vuole pronunciare scaramanticamente.

Ci si può chiedere, come diceva l’economista Rodrick della globalizzazione, se la finanziarizzazione, che è la sua compagna gemella, non sia andata troppo oltre. Se non avesse ragione Tobin nel suggerire di gettare qualche manciata di sabbia negli ingranaggi di questo meccanismo travolgente? La sua proposta di una mini-imposta sulle transazioni di brevissimo periodo andava in questo senso. Fu accolta con orrore, se non con indignazione. Oggi, appare inadeguata alla luce di quanto sta succedendo sui mercati. Quel che sta succedendo, è un ininterrotto processo di deregolazione finanziaria. Una deregolazione che è difficile non definire sregolatezza.

Prendiamo il fenomeno dei cosiddetti private equity che preoccupa l’Economist, fino a ieri un loro entusiasta sostenitore. Che cos’è che sta andando storto? Possiamo tentare di capirlo se collochiamo questo trionfale successo dell’economia finanziaria nella sequenza di una progressiva differenziazione e articolazione degli strumenti finanziari. All’inizio del processo comparvero i fondi di investimento, nient’altro che pacchetti combinati di titoli scelti nel mercato finanziario tra quelli che presentavano a giudizio dei loro promotori le migliori performances. Seguirono poi gli hedge founds che, all’opposto del loro significato letterale (fondi di copertura) erano fondi speculativi operanti attivamente al rialzo o al ribasso su qualunque tipo di titoli, monete e materie prime al fine di ottenere una plusvalenza. La differenza tra fondi di investimento e hedge funds è enorme. Nel secondo caso i titoli sono trattati come dei valori in sé utili esclusivamente a realizzare un guadagno speculativo, solo alla lontana collegati con la realtà delle imprese che rappresentano. Valori che questi fondi riescono a movimentare ben oltre le loro risorse, perché usano spregiudicatamente la leva finanziaria. Chi non ricorda il fantastico successo del Quantum Fund di Soros e il suo trionfo sulla sterlina (e prima ancora, sulla nostra liretta?): ma anche il disastro delle Casse di Risparmio americane, che avevano affidato le risorse dei loro pensionati a operatori eccessivamente audaci?

Alla fine, il terzo stadio della deregolazione: i private equity (letteralmente, averi privati). Anziché operare con acquisti e vendite di titoli all’interno del mercato finanziario, lo si abbandona, comperando delle imprese quotate e sottraendole alla quotazione per affidarle a una gestione del tutto disinibita. Da che cosa? Da quell’insieme di regole di condotta che la quotazione impone per garantire ad azionisti e a risparmiatori una protezione, quanto alla visibilità della gestione, ai conflitti di interesse, eccetera. Dalla odiata legge Sarbanes Oxeley introdotta per sanzionare i comportamenti criminosi del management, dopo il disastro della Enron. Dalla violazione di norme riguardanti i rapporti di lavoro. Inoltre, gli investitori ed i gestori dei private equity godono di privilegi fiscali che lo stesso Economist giudica indecenti, e le aziende da loro acquistate godono della generosissima leva finanziaria accordata dalle banche. C’è da stupirsi se queste imprese, sottratte ad ogni visibilità da parte dei cosiddetti stakeholders (le parti sociali comunque interessate all’impresa) registrano profitti eccezionali?

Insomma, si torna a una epoca di capitalismo selvaggio, come espressione più avanzata del «nuovo capitalismo». Dopo aver inventato il mercato finanziario per rendere più liquido il capitalismo, si liquida il mercato finanziario.

Le preoccupazioni sulla sorte dei private equity, a causa dei debiti che questi caricano sulle aziende sono, comunque, solo un aspetto del rischio maggiore, che consiste nel colossale e generalizzato indebitamento che caratterizza il capitalismo dei nostri giorni. Indebitamento che in America raggiunge il culmine. Della bilancia dei pagamenti verso i paesi esteri, dello Stato verso i cittadini, dei cittadini verso le banche, le quali diventano sempre più, grazie al loro potere di creare moneta, le vere e proprie arbitre del sistema. Questo indebitamento è frutto di una mercatizzazione del futuro; si può dire anche del tempo, come la globalizzazione è una mercatizzazione dello spazio.

Questa corsa all’indebitamento non può però non incontrare limiti. Due sono, in fin dei conti, i limiti assoluti. Uno riguarda la disponibilità di risorse naturali. Prima o poi, la domanda crescente incontrerà scarsità di materie prime e di fonti di energia. Di qui potrebbe partire un processo inflazionistico. L’altro, più imponderabile, ma molto più preoccupante, è una crisi di fiducia: di quella fiducia sulla quale si regge, in fin dei conti, la strapotenza del capitalismo. Se domani dovesse malauguratamente accadere, nessuno avrà dubbi nell’individuarne le cause. Il commento lo si potrebbe scrivere oggi, senza esitazioni.

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