Articoli di Giacomo Talignani e Paolo Rumiz, la Repubblica, 17 settembre 2017. Emilia e Lombardia separate, code di tir, pendolari esasperati “Vecchi e fragili il governo ci aiuti". (c.m.c)
la Repubblica 17 settembre 2017
I PONTI MALATI SUL PO
COSÌ IL GRANDE FIUME TORNA
A DIVIDERE L'ITALIA
di Giacomo Talignani
Parma.Separati dal grande fiume, isolati e colpiti da un’economia in sofferenza. Tra l’Emilia e la Lombardia migliaia di cittadini stanno soffrendo le pene di quella che era un’emergenza annunciata da tempo: i ponti di confine fra le province sono “malati” e sul Po non si passa più. Quello principale, fra Parma e Casalmaggiore, è stato chiuso a inizio settembre a tempo indeterminato per lesioni.
Con gli altri attraversamenti a mezzo servizio, un’itera area nel cuore della food valley è finita così in ginocchio. «Nessuno ha voluto curarli per tempo e questi sono risultati» dicono pendolari e residenti a cui è cambiata la vita. Il caos, a cavallo di tre province (Parma, Cremona, Mantova), è esploso a fine agosto quando un agricoltore, mentre lavorava sotto il ponte che collega Colorno a Casalmaggiore, ha notato problemi alle travi: dopo i primi rilievi il ponte è stato chiuso a data da destinarsi. Delle 156 travi, 93 sono risultate lesionate. Era una sorta di autostrada alternativa fra le strade della Bassa: lì passavano ogni giorno 25mila veicoli, per lo più tir che attraversavano le due regioni (anche per raggiungere il Brennero) e lavoratori “frontalieri”. Dalle mamme costrette ad allungare di un’ora il tragitto per portare i figli a scuola, ai pendolari senza più alternative, sino ai commercianti che hanno perso «il 90% dei clienti», riuscire ad arrivare “al di la dell’acqua” è diventata un’impresa.
Anche perché gli altri ponti, vecchi di 50 anni, soffrono tutti. Ci sono i cantieri sul viadotto della A21 nel cremonese. Il Ponte Verdi, a corsia alternata fra Ragazzola e San Daniele Po, vede code infinite nelle ore di punta e sull’unica alternativa senza lavori, Viadana-Boretto, si riversano migliaia di mezzi. I sindaci, precisando di «non avere soldi per intervenire», hanno definito la situazione «molto seria» e dopo una riunione d’urgenza delle Province hanno chiesto l’intervento del ministro Graziano Delrio e fondi governativi «immediati ». Come tampone all’emergenza, c’è chi propone perfino battelli mobili per le merci. Sono talmente esasperati, gli esercenti dell’Asolana, che nei bar a ridosso del grande ponte ormai gli affari si misurano in brioches.
«Quando funzionava a quest’ora del mattino ne vendevo almeno 100. Sa quante ne hanno mangiate oggi? Otto», si lamenta Luigi Dabellani del ristorante Il Lido, sul versante parmense. «Abbiamo perso il 90% dei clienti. Ieri ho tenuto aperto il ristorante da solo. I miei dipendenti vengono in treno e non sanno se faranno in tempo a tornare». Poco più in là, al ristorante Bello Carico, la titolare dice: «Dal 2000 il ponte l’hanno già chiuso tre volte. Ora non sanno nemmeno dirci quando riaprirà».
Le aziende agroalimentari sono costrette a far passare i camion più a ovest, tra Ragazzola e San Daniele Po, ma non va meglio. «Ieri c’erano chilometri di coda. Ho contato 17 tir fermi qui davanti», dicono dalla stazione di rifornimento sulla sponda lombarda. Il ponte è a una sola corsia e «si può stare in coda anche 40 minuti ». Su quello che va da Viadana a Boretto, il serpentone di veicoli si snoda a rilento in direzione Parma. Sul ponticello dell’affluente Enza, «si è passati all’improvviso da 20mila a 40mila mezzi », nota il sindaco. Uno di quei tir, pochi giorni fa, ha investito un’anziana uccidendola, forse la prima vittima di una «disastro che si poteva evitare».
la Repubblica 17 settembre 2017
QUEI SIMBOLI
DEL NUOVO MEDIOEVO
di Paolo Rumiz
I nostri ponti? Simbolo perfetto di un Paese fondato sull’incuria. Per capire, non devi guardarli da terra. Devi passarci sotto, con la corrente. Vedere i piloni circondati da una corona di spine di tronchi sospesi a mezz’aria; il segno del livello delle ultime piene. Li ho visti, scendendo in barca il fiume d’Italia, ed è sempre la stessa storia. Foreste intere di alberi morti sotto le campate, ai quali nessuno sembra prestare attenzione.
Per anni nessuno ci pensa, perché levare quella ramaglia è un affare costoso e complicato. Ma chiunque ha dimestichezza con l’acqua sa che, alla prima grande pioggia, quella foresta aggrappata alla pietra genererà sulla struttura una pressione intollerabile. Decine di ponti sono venuti giù, negli ultimi trent’anni, per questo unico motivo. Gli alvei troppo stretti, troppo veloci e troppo ingombri di materiali che vanno ad accumularsi attorno al primo pilone.
Oh certo, abbiamo le autostrade, il calcestruzzo, le grandi gallerie transalpine e transappenniniche, le ardite campate dei viadotti. Ma i ponti sfuggono allo sguardo di una nazione che ha perso dimestichezza con l’acqua al punto da diventare idrofoba. Quando andai a monitorare la scomparsa dei torrenti nel Mugello a causa del traforo ferroviario Bologna- Firenze, constatai che in alcuni Comuni i pubblici amministratori non s’erano nemmeno accorti che, sotto i loro ponti, i letti dei corsi d’acqua erano all’asciutto. Ora, attorno a Piacenza, Emilia e Lombardia, nuovamente separate del fiume, si ritrovano a scoprire la corretta etimologia della parola “rivale”, cioè “colui che, stando sull’altra riva del fiume, può essermi in qualche modo ostile se non nemico”. I ponti non sono soltanto realizzazioni ingegneristiche ma simboli di unità di un territorio altrimenti governato da antagonismi di campanile. I ponti hanno un’anima e chi li costruisce compie un sortilegio, da cui la parola “pontefice”.
Dopo duemila anni abbiamo ponti romani ancora in piedi. Alcuni esempi: il Pont du Gard nel Sud della Francia, e il Pont Saint Martin all’uscita del Lys sulla Dora Baltea in Valle d’Aosta. Sulla via Appia, molto di essi hanno funzionato ininterrottamente fino al 1944, quando i Tedeschi, ritirandosi a Nord, non li hanno fatti saltare. Ma la loro potenza è ancora visibile.
Giganteschi conci di pietra intatti nelle campate sopravvissute alla dinamite. La storia insegna. La fine della Romanità fu segnata dall’insicurezza delle strade. Dal crollo della loro manutenzione. E allora ci si chiede se non tocchi anche a noi tornare ai guadi. Ai santi traghettatori, tipo quello sul “Transitus Padi” del vescovo Sigerico, che qualcuno, forse per lungimiranza, ha rimesso in esercizio a Sud di Milano per via dei pellegrini della Francigena. In un Paese dove i Comuni in bolletta si svendono all’eolico o alla speculazione idroelettrica dei privati, la crisi dei ponti può avvertirci di un nuovo medioevo.