Il generale Mario Mori, quando ha preso la parola per le sue dichiarazioni spontanee al processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, l’ha ripetuto un’altra volta. Per lui la causa principale delle stragi di Capaci e di via D’Amelio del 1992 va ricercata nelle indagini, condotte un anno prima proprio dai carabinieri, sugli appalti pubblici spartiti in Sicilia con il benestare della mafia. Anche perché, ha sostenuto Mori il 20 ottobre, quelle inchieste furono archiviate in tutta fretta all’indomani dell’omicidio di Paolo Borsellino. La trattativa dello Stato con Cosa Nostra, insomma, non c’entra. E per capire cosa è successo bisogna scavare sul sistema dei lavori pubblici. Come spesso accade nelle vicende di mafia ci troviamo di fronte a due diverse verità.
A delle storie parallele che però, non divergono, ma anzi collimano, tra loro. Perché quando Cosa Nostra decide un omicidio eccellente non lo fa mai per un unico motivo.
È un fatto che le indagini dell’Arma facessero paura a molti. Il giovane capitano Giuseppe De Donno ci aveva lavorato per più di un anno. Così, il 16 febbraio del 1991, consegna nelle mani di Giovanni Falcone un rapporto di 900 pagine che, senza pentiti, sembra anticipare di più di un anno l’inchiesta milanese di Mani Pulite. Falcone però non lo può esaminare. Sta partendo per Roma, dove diventerà direttore degli affari penali al ministero, perché ormai a Palermo lui non può più lavorare. A metterlo in un angolo non sono stati i mafiosi. Sono stati alcuni suoi colleghi e soprattutto l’allora procuratore Pietro Giammanco.
Il rapporto di De Donno è una bomba. Per la prima volta viene svelato il ruolo di Angelo Siino, l’uomo che per conto di Cosa Nostra curava la spartizione di lavori e mazzette. E viene anche spiegato quello del gruppo Ferruzzi di Ravenna, in affari con la mafia. Nella relazione sono citati i nomi di aziende come la Grassetto di Salvatore Ligresti, la Tordivalle di Roma (degli eredi di De Gasperi), la Rizzani De Eccher di Udine, le imprese dei cavalieri del lavoro di Catania, la SII poi rilevata dall’ex direttore generale della Edilnord di Berlusconi, Antonio D’Adamo, una serie di cooperative rosse, la Impresem del costruttore agrigentino Filippo Salamone e poi tutte le società che fanno capo a Bernardo Provenzano. Nonostante questo Mani Pulite alla siciliana non parte. Perché la questione degli appalti e del pizzo diviso tra mafiosi e politici arrivi realmente alla ribalta bisogna attendere che a Palermo giunga il procuratore Giancarlo Caselli.
Ma c’è di peggio. Il rapporto di De Donno finisce presto in mano ai mafiosi. Chi lo abbia consegnato, le indagini, tutte archiviate, non lo hanno mai stabilito. Restano sul tavolo le accuse: quelle del Ros ai magistrati e quelle dei magistrati ai carabinieri. L’ex braccio destro di Provenzano, il capomafia oggi pentito Nino Giuffrè, è però certo che il contenuto di quel rapporto impresse un’accelerazione alla decisione, secondo lui già presa, di uccidere sia Falcone che Borsellino. In ballo c’erano infatti più di mille miliardi di lire da spartire tra mafia e politica.
È indiscutibile, poi, che anche Borsellino, subito dopo la morte dell’amico, si sia messo a battere pure il fronte dei lavori pubblici. Proprio per questo ebbe allora un incontro con Antonio Di Pietro, all’epoca uomo simbolo di Mani Pulite, e, secondo Mori, il 25 giugno discusse la questione appalti anche con lui e De Donno: un’inchiesta senz’altro rallentata, se non insabbiata, nei mesi successivi. Un’indagine che oltretutto sarà poi falcidiata da prescrizioni e sentenze contraddittorie nei confronti di imprese e politici. Sulla morte di Borsellino, insomma, il rapporto mafia-appalti pesa. E da solo spiega molto. Ma non tutto.