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Vijay Prashad
I lavoratori emigrati subiscono una doppia ingiustizia
31 Gennaio 2018
2015-EsodoXXI
Internazionale, 25 gennaio 2018. La vita insopportabilmente pesante dei lavoratori sballottati da uno sfruttamento all'altro, trattati come merce di scarto dai paesi che fingono di ospitarli per sfruttarli meglio. (i.b)

Internazionale
Addis Abeba, Etiopia, dicembre 2013. È mezzanotte passata. L’aereo in arrivo dall’Arabia Saudita trasporta alcuni lavoratori che sono stati espulsi in fretta e furia. Erano partiti dall’Etiopia per svolgere lavori di ogni tipo in questa monarchia resa ricchissima dal petrolio. I lavoratori migranti etiopi scendono dall’aereo. Hanno dei sacchetti di plastica con dentro i loro oggetti. Non sembra che il duro lavoro in Arabia Saudita li abbia arricchiti. Alcuni sono scalzi. L’aria è rigida. Devono avere freddo con le loro camicie e i loro pantaloni, con i piedi nudi sulla dura terra.

Qual era stato il motivo della loro espulsione? Le autorità saudite avevano dichiarato che si trattava di migranti entrati nel paese senza documenti. Avevano attraversato il pericoloso golfo di Aden su imbarcazioni di fortuna. L’Arabia Saudita accoglie questi migranti, anche quelli senza documenti, soprattutto perché offrono il loro lavoro a prezzi molto bassi, e in condizioni molto dure. A intervalli regolari, il governo di Riyadh se la prende con questi lavoratori irregolari arrestandoli in pubblico, rinchiudendoli in campi d’espulsione e poi rispedendoli nel paese d’origine.

Tra il giugno e il dicembre 2017 le autorità saudite hanno detenuto 250mila cittadini stranieri e rispedito a casa 96mila etiopi. Quando il governo saudita vuole essere particolarmente crudele, trasporta gli etiopi sul confine tra l’Arabia Saudita e lo Yemen e li lascia dalla parte yemenita. Lo Yemen, che è ancora bersagliato quasi quotidianamente dai bombardamenti sauditi, non è il luogo migliore per accogliere degli etiopi disperati.

Le autorità che permettono a migranti senza documenti di entrare nel paese per poi umiliarli con questo genere di pubbliche espulsioni, di fatto ricattano i lavoratori consentendo ai trafficanti di esseri umani e ai datori di lavoro di mantenere i salari ai livelli più bassi possibile. Non c’è nessuno con cui lamentarsi.

Gli etiopi continuano ad andare in Arabia Saudita a causa della grave crisi del loro paese. Tra i sei e i nove milioni di etiopi hanno avuto bisogno di aiuti alimentari di qualche tipo nel 2017, visto che gravi siccità e povertà hanno contribuito a creare una situazione di quasi carestia. Nell’Etiopia sudorientale, da dove provengono molti dei migranti, la siccità ha decimato le mandrie di bestiame e ridotto la produzione agricola. Si tratta della stessa area nella quale l’Etiopia accoglie 894mila profughi provenienti da Eritrea, Somalia, Sud Sudan e Sudan. Questi rifugiati arrivano qui spinti dalla fame e dalle guerre. Solo nel 2017 sono arrivati in Etiopia 106mila profughi, la maggior parte dal Sud Sudan (sono 420mila i cittadini di questo paese oggi in Etiopia). Un paese che accoglie quasi un milione di profughi, a sua volta in grave crisi, ne spedisce forse un milione nella penisola araba (nella sola Arabia Saudita sono mezzo milione). Questo movimento circolare di profughi è uno degli elementi che definisce oggi il nostro pianeta.

Non riesco a togliermi dalla testa l’immagine delle persone scalze. I lavoratori etiopi affermano di essere quotidianamente maltrattati in Arabia Saudita, che si tratti di violenza sessuale sulle donne che lavorano come domestiche, di violenze fisiche su ogni tipo di lavoratori e di molestie della polizia. La cosa è diventata normale. È così che vivono ormai.

La dura realtà

All’inizio dell’anno sono andato a Dhaka, in Bangladesh, e ho visitato la Drik Gallery III, dove ho potuto vedere la mostra fotografica di Shahidul Alam dedicata ai migranti che dal Bangladesh raggiungono la Malesia. Le foto mostrano la speranza negli occhi dei migranti e il grande senso di delusione quando la vita si rivela, per molti di loro, diversa da quella che gli era stata promessa. Le fotografie di Alam sono scintillanti e la sua personale compassione fa emergere i sentimenti con grande sincerità dagli uomini e dalle donne che fotografa.

Alam mi ha dato il suo libro, The best years of my life (I migliori anni della mia vita), che raccoglie le foto che ho visto nella galleria, accompagnate da un suo testo commovente. Il libro racconta il viaggio di migranti del Bangladesh che, alla ricerca di un sogno, raggiungono i campi e le fabbriche della Malesia, dove lavorano per salari bassi e sono ingannati dai trafficanti, dai funzionari e dagli altri migranti. La speranza di guadagnare abbastanza da aiutare le loro famiglie rimaste a casa spinge i migranti a sacrifici indescrivibili. Sahanaz Parben ha un figlio di undici anni che la chiama zia: a malapena la conosce. I figli di Babu Biswas lo hanno visto, brevemente, tre volte in dieci anni. “Stanno bene”, dice l’uomo.

Lo status legale di questi migranti è spesso poco chiaro. Ed è proprio il loro fragile status che li obbliga ad accettare paghe misere. Ma il denaro dei migranti “illegali” non è illegale. In Bangladesh è il benvenuto. Sono circa nove milioni (secondo la Banca mondiale) gli emigrati del Bangladesh che spediscono a casa 15 miliardi di dollari. Su una media di cinque anni, si tratta del 10 per cento del prodotto interno lordo (pil) del Bangladesh.

Non è una percentuale alta come quella della Liberia, dove circa un quarto del pil proviene dalle rimesse dei lavoratori migranti. Queste economie crollerebbero senza le piccole somme di denaro che milioni di lavoratori spediscono e che costituiscono buona parte della valuta estera che arriva in questi paesi.

Vale la pena notare che gli investimenti esteri (ide) che arrivano in Bangladesh rappresentano appena lo 0,9 per cento del suo pil. Le rimesse dei lavoratori hanno un peso decisamente più importante sull’economia rispetto agli ide provenienti da banche e aziende straniere. Eppure, come rileva Alam, il governo del Bangladesh tratta con disprezzo i migranti.

L’alto commissario Mohammed Hafiz sembra una persona abbastanza per bene. Ma ha sostanzialmente rinunciato a fare il suo dovere. “Che posso fare?”, dice. Hanno ragione gli attivisti. Parimala Narayanasamy, del Coordinamento d’azione e ricerca sugli aiuti e la mobilità (Caram), spiega ad Alam che “i governi dei paesi di provenienza dovrebbero dire pubblicamente e chiaramente che se ci sono paesi che hanno bisogno di lavoratori, sono i paesi d’origine dei lavoratori stessi a dover fissare termini e condizioni”. Ma è esattamente quello che non viene fatto, né da parte del governo del Bangladesh né da parte dell’Etiopia, i quali invece trattano i banchieri e i dirigenti d’azienda stranieri come eroi, e da criminali i loro concittadini che spediscono quantità di denaro molto più consistenti.

All’aeroporto internazionale Shahjalal di Dhaka, ricarico il mio telefono. Due uomini vengono da me e mi chiedono di usare il mio caricatore. Sono diretti nel golfo Arabo. Non ho il caricatore giusto per il loro telefono. Una donna viene da me, mi porge la sua carta d’imbarco e mi chiede a che ora è previsto il suo volo per Abu Dhabi. Al suo arrivo l’accoglierà il suo datore di lavoro. Cerca il biglietto nella sua borsa, dove sono contenuti pochissimi oggetti. Uno dei due uomini le chiede se ha un caricatore. Lei non ce l’ha. Si sorridono a vicenda. Hanno moltissimo un comune. Troveranno un modo di aiutarsi a vicenda. È così che fanno questi lavoratori. Si aiutano a vicenda e aiutano le loro famiglie. E tutti li considerano una seccatura.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Abbiamo ripreso questo articolo dall', che l'ha a sua volta preso e tradotto da Alternet.

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