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Daniela Del Bene Federico Demaria Sara M
I grandi conflitti di natura globale
5 Giugno 2016
Invertire la rotta
«Nella Giornata Internazionale dell’Ambiente è bene chiedersi qual è lo stato di salute della giustizia ambientale nel mondo. Ecco la mappa delle tante guerre silenziate che veicolano anche proposte di trasformazione socio-economica e delle relazioni di potere».
«Nella Giornata Internazionale dell’Ambiente è bene chiedersi qual è lo stato di salute della giustizia ambientale nel mondo. Ecco la mappa delle tante guerre silenziate che veicolano anche proposte di trasformazione socio-economica e delle relazioni di potere». Il manifesto, 5 giugno 2016


È difficile dire quanti conflitti ambientali ci siano nel mondo; eppure mentre si proclama la Giornata Internazionale dell’Ambiente è bene chiedersi qual è il suo stato di salute partendo dalle frontiere dell’estrazione dei materiali e energia che alimentano l’attuale economia industriale. Tante guerre silenziate ma da cui nascono anche proposte di trasformazione socio-economica e delle relazioni di potere.

Un primo tentativo di mappatura a livello globale è stata fatta nel progetto EJAtlas, l’Atlante Globale di Giustizia ambientale. Il progetto è codiretto da Leah Temper e Joan Martinez Alier e coordinato da ormai 5 anni dall’Istituto di Scienza e Tecnologia Ambientale – Università Autonoma di Barcellona, in collaborazione con molte altre organizzazioni e singoli cittadini da circa 100 paesi. Ad oggi ha mappato più di 1700 casi di conflitto relazionati a attività estrattive, produttive e di smaltimento dei rifiuti, e continuerà nei prossimi anni per includere aree e casi ancora poco conosciute.

Qui sotto presentiamo dieci conflitti emblematici di ingiustizia socioambientale per i meccanismi che li scatenano: distribuzione diseguale dei benefici e degli impatti, mancata partecipazione da parte della comunità locale, violazione delle leggi, accesso alla giustizia, impunità delle imprese, inquinamento, corruzione. Casi in cui l’incremento dell’uso e abuso di risorse dell’economia industriale si unisce in uno spietato cocktail al crescente divario fra arricchiti e impoveriti, alla violazione di diritti umani ed ambientali e alla sistematica impunità delle grandi imprese e apparati statali complici. Essi toccano differenti aree geografiche e tematiche, dal petrolio alle energie rinnovabili.

Si incontrano frequentemente nei paesi del Sud del mondo ma stanno strettamente relazionati con l’alto “metabolismo sociale”, l’uso di materiali e energia che l’economia industriale consuma. Paesi di limitata industrializzazione, come molti andini o centroamericani, soffrono per fenomeni di land grabbing per piantagioni di olio di palma e altri prodotti agricoli per l’esportazione, paesi di attuale industrializzazione come Cina, India, Brasile registrano conflitti sia in centri urbani e produttivi per l’elevato inquinamento ma anche per un “colonialismo interno”. Zone come l’Amazzonia viene sacrificata per l’oligarchia brasiliana, le comunità Adivasi della cintura mineraria dell’Orissa, Chattisgarh e Jharkhand subiscono una violenta militarizzazione per garantire l’accesso alla bauxite e al carbone dell’India, i fiumi della regione himalayana sono deviati nei tunnel delle centrali idroelettriche per fornire elettricità e profitto alle imprese indiane.

Ma conflitti si registrano anche nei Paesi industrializzati, dove particolarmente critici sono i processi di privatizzazione di servizi pubblici, l’apertura di nuove “frontiere estrattive” come le miniere in Grecia o Romania, il fracking in Spagna o Polonia, e i grandi progetti infrastrutturali di trasporto o energia. L’Italia ha contato su una rete di collaboratori e un lavoro di coordinamento di Cdca- A Sud per la produzione di una mappatura nazionale, con oltre 80 casi di conflitti e resistenza nel nostro Paese.

Ma ogni conflitto registrato nell’EJAtlas ha qualcuno che lo denuncia. Spesso sono membri di organizzazioni di base o reti internazionali, che raccolgono testimonianze delle comunità locali e di ricercatori accademici per creare nuovi contro-argomenti. Reclamando una giustizia ambientale, lottano anche per un’economia diversa e per un vivere comune sano. Nonostante repressioni e criminalizzazioni, difendono anche un altro sapere, nato dalle radici profonde della memoria e dal rispetto della sacralità dei territori. Esperienze come l’epidemiologia popolare in Brasile su siti inquinati hanno contribuito a identificare malattie e disturbi non riconosciuti da parte delle autorità. La rilevazione di tracce di petrolio nel bestiame nell’Amazzonia peruviana da parte di abitanti della selva, affiancati da scienziati, ha dimostrato impatti dell’estrazione altrimenti nascosti e ignorati.

Dal conflitto spesso nasce una nuova consapevolezza, si mette in discussione lo status quo e si riconosce che “giustizia” non è solo una compensazione monetaria ma richiede una ridefinizione di relazioni di potere e processi decisionali. Movimenti come i No Tav in Italia, Zad in Francia, gli abitanti di Rosia Montana in Romania, non chiedono solo di fermare un progetto; rappresentano la ricerca e la costruzione quotidiana di una nuova sovranità popolare. Nella resistenza nascono concetti nuovi per denunciare ingiustizie, come la biopirateria o il colonialismo tossico, ma anche un vocabolario che rivendica un futuro con dignità e allegria, come «decrescita», «transition towns», «sumak kawsay» (buen vivir), «sovranità alimentaria» e «energetica».

DIECI CONFLITTI
CONTRO NATURA

Guatemala, Olio di palma e zucchero di canna
violenze nella Valle del Polochic

Dopo la firma degli accordi di pace nel 1996, due famiglie di origine tedesca presero il controllo di piantagioni avviando il business di palma da olio nel 1998 e zucchero di canna nel 2005, occupando un terzo della terra di Polochic. Il Polochic è una valle di territorio fertile, situata nel nordest del Guatemala, ma che ha vissuto un processo di accaparramento di terre sotto il controllo di pochi proprietari terrieri dal 1888, mentre la maggior parte della popolazione indigena Q’eqchi’ non ne ha avuto accesso. La popolazione locale denuncia la contaminazione del suolo e la deviazione dei fiumi, la deforestazione per entrambe le coltivazioni, intossicazioni e malattie dovute agli antiparassitari per la canna da zucchero.

Questo caso fu conosciuto internazionalmente quando furono evacuate 800 famiglie di 13 comunità Q’eqchi’ che occupavano parte delle terre del Polochic che erano state coltivate a canna da zucchero, e sarebbero tornati ad essere seminati da una famiglia del Nicaragua. Nel 2010 alcune famiglie occupano 13 tenute messe all’asta per il fallimento economico del zuccherificio e ne reclamano allo Stato l’acquisto. Le negoziazioni si interruppero con violenti sfratti, durante i quali si bruciarono le coltivazioni e le case degli abitanti locali ed un contadino fu assassinato. Mesi dopo vennero uccisi altri due contadini e la sicurezza privata dell’impresa ferì con proiettili donne e bambini. Questo è uno dei 450 casi di conflitti di accaparramento di terre identificati nell’EJAtlas e sta dentro il 12% dei casi dove si sono registrati omicidi.

Rischi no border:
la centrale nucleare di Almaraz in Spagna

In Spagna si prolunga la vita utile delle centrali nucleari, il che genera allarmanti effetti ambientali e sociali che per loro natura non conoscono confini tra stati e apparati normativi. Uno dei casi più emblematici si trova nella provincia di Càceres, dove l’attività della vecchia centrale di Almaraz costituisce un importante rischio per la regione transfrontaliera con il Portogallo.

Questa centrale è stata costruita nel Campo Arañuelo all’inizio degli anni ’80, nonostante l’opposizione del movimento antinucleare sorto nella decade anteriore, che si opponeva anche a un progetto in Valdecaballeros (anche questo in Extremadura). Almaraz è dotata di due reattori da 1.000 Mw ciascuno che per il raffreddamento utilizzano l’acqua della diga di Arrocampo, sul fiume transfrontaliero Tajo. Secondo l’ong spagnola Ecologistas en Acciòn, tra il 2007 e il 2010, si sono registrati almeno 75 incidenti nella centrale. Anche l’opposizione locale ha confermato incidenti, errori da parte dell’impresa manutentrice, interruzioni non programmate che hanno violato protocolli di sicurezza.

A oggi si è formata una rete di gruppi sociali transfrontalieri, uniti nel Movimiento ibèrico antinuclear, che non solo esige la chiusura della centrale, ma lancia l’allarme di potenziali conflitti tra i due Stati – Spagna e Portogallo – per l’acqua. La centrale infatti pone a rischio la salubrità delle acque del fiume Tajo e un incidente potrebbe diventare fonte di contaminazione radioattiva lungo tutto il bacino, come già è successo nel 1970. Il prossimo 11 giugno è convocata una protesta transfrontaliera nelle strade di Càceres sotto lo slogan: «Fechar Almaraz. Descanse em paz» (Chiudere Almaraz. Riposa in Pace)

La violenza del petrolio
nel Delta del Niger in Nigeria

Il delta del fiume Niger è uno dei luoghi sul pianeta che più ha subito le conseguenze dell’estrazione di greggio. L’attività estrattiva iniziata negli anni ’50 con la anglo-olandese Shell ha causato impatti ambientali e sociali irreparabili, e un altissimo livello di violenza, anche armata, esecuzioni sommarie, torture e detenzioni illegali. Le comunità locali denunciano pratiche illegali come la combustione del gas residuo che si produce nel processo di estrazione e lavorazione del petrolio, per i suoi grandi impatti sull’ambiente e la salute. La vegetazione e i raccolti soffrono degli effetti della pioggia acida, responsabile anche dell’aumento degli aborti, deformazioni congenite, malattie respiratorie e cancro. Il caso del Delta del Niger raggiunse un punto critico nel 1995 quando il poeta e leader comunitario, Ken Saro Wiva, fu assassinato. Nonostante il conflitto abbia raggiunto il pubblico internazionale, l’accesso alla giustizia per le comunità danneggiate richiede uno grande sforzo che, frequentemente, cade nella deprecabile impunità.

Attualmente ci sono processi aperti in differenti paesi come Olanda, Ecuador e Ue per indagare sulla responsabilità delle imprese che operano nel Delta; incluse la anglo-olandese Shell, la statunitense Chevron e l’italiana Eni. L’organizzazione locale Era (Environmental Rights Action/Amici della Terra Nigeria), partner del progetto, ha denunciato un gran numero di perdite di greggio provenienti da tubature carenti di manutenzione, e la grave mancanza di bonifica e riparazione dei danni da parte delle imprese responsabili.

Oltre agli indennizzi, Era e molte comunità locali chiedono anche misure più radicali, fino a quella di lasciare nel sottosuolo le riserve rimanenti («Leave Oil in the Soil»). L’appello dalla Nigeria si unisce ad altre campagne, come in Ecuador con l’iniziativa cittadina per il parco Yasunì, e rapidamente trova nuove alleanze come in occasione della ultima Cop di Parigi, con leader indigeni della Turtle Island (America del Nord).

Brasile, il disastro della diga
dove lo Stato si accorda con i responsabili

Il 5 novembre 2015, la rottura della diga di Fundão nella città di Mariana (miniera Gerais) lanciò 34 millioni di metri cubi di fanghi sul paese Bento Rodriguez, uccidendo 19 persone e lasciando più di 600 famiglie senza tetto. Si tratta probabilmente del maggior disastro ambientale accaduto in Brasile, per una grave negligenza dell’impresa miniera. La diga conteneva infatti i residui dell’attività mineraria e della produzione di ferro dell’impresa Samarco, gestita dal gigante minerario brasiliano Vale e di uno dei più grandi colossi mondiali, la Bhp Billiton. La miniera di Samarco era una delle più grandi miniere di ferro nel mondo fino a che l’incidente bloccò le sue attività. Dopo il disastro di Bento Rodriguez, il fango di Samarco arrivò al fiume Doce, dove viaggiò circa 700 km passando per più di 40 città, fino all’oceano.

In tutto questo cammino i fanghi inquinanti hanno contaminato le acque, sterminando fauna e flora. La attività e le fonti di vita di piccoli agricoltori, pescatori e comunità indigene hanno subito impatti irreversibili. Quest’anno l’impresa ha ricevuto una multa da parte dello Stato, la cui entità appare ridicola a fronte dei danni causati: appena 70 milioni di dollari. Nonostante questo, l’impresa ha avuto il coraggio di negoziare con i governi federale e statale un fondo di 5.500 milioni di dollari per recuperare il bacino del rio Doce in 15 anni. Lo scandalo di tale accordo ha portato più di 100 istituzioni e movimenti sociali di tutto il Brasile, come il movimento delle vittime a causa delle dighe nel paese Mab, a opporsi alla sua firma. La società civile esige una vera azione, partecipativa e trasparente, per ripulire l’area e accollare alle imprese responsabili i danni causati.

Villaggi-cancro,
i veri costi del «made in China»

Un tempo il villaggio di Yongxing era una piccola comunità rurale, vicino alla città di Guangzhou. Vent’anni fa i campi erano irrigati con acqua limpida che scendeva dalle montagne per le piantagioni di riso, verdura e frutta. Nel 1991 la riserva naturale venne soppiantata da una discarica di rifiuti di 34.5 ettari, in cui venivano interrati ogni giorno circa 100 tonnellate di immondizia. Più tardi la stessa zona fu scelta per la costruzione di due inceneritori e uno stabilimento per lo stoccaggio dei rifiuti. La popolazione locale protestò contro la gravissima contaminazione; l’acqua dei loro pozzi risaliva densa, con un colore giallognolo e pellicole superficiali rosse.

Le proteste per le strade si conclusero con incarcerazioni di massa che durarono anni. Da allora gli abitanti di Yongxing sono costretti a comprare l’acqua potabile e ad abbandonare le attività agricole di sussistenza. I campi vengono affittati a prezzi irrisori a lavoratori migranti che non hanno altra scelta che coltivare terreno insalubre ma economico per vendere il raccolto alla città. Oltre all’ambiente seriamente contaminato, la maggiore preoccupazione è il repentino aumento dei casi di cancro nel paese, ma le autorità sanitarie locali fanno finta di non vedere.

L’Oms ha avvertito che lo smaltimento non a norma dei rifiuti negli inceneritipuò comportare l’emissione di diossine e furano, con impatti negativi sulla salute umana. Il villaggio di Yongxing è uno dei tanti casi conosciuti come i «villaggi-cancro» in Cina, dove le attività industriali e le enormi discariche operano con standard di sicurezza ridicoli nonostante i comprovati effetti nocivi per la popolazione umana e l’ecosistema.

Honduras, violenza e repressione
in nome dell’energia verde

Col colpo di Stato del 2009 si è intensificata la violenza in Honduras. Fra il 2009-2013, il Congresso nazionale ha approvato una serie di leggi a favore dello sfruttamento delle risorse naturali. Nel 2010 fu approvato il progetto idroelettrico «Acqua Azzurra» sul fiume Gualcarque, sacro per la popolazione indigena dei Lenca. La concessione fu data all’azienda honduregna Desarollos Energèticos (Desa) e finanziata dalla Banca di Sviluppo olandese (Fmo), dal fondo di cooperazione Finnfund (Finlandia) e dalla Banca centroamericana di integrazione economica.

La popolazione Lenca ha denunciato la violazione dell’accordo 169 della Oit per la mancanza di una consultazione preventiva, libera ed informata, della popolazione locale oltre alla presenza dell’esercito a sorvegliare le opere e le minacce ai leader Lenca. Per la popolazione locale non è il primo progetto estrattivo che percepisce come minaccia; i Lenca si sono già espressi contro progetti minerari, iniziative finanziate col meccanismo Redd+ e contro la costruzione delle cosiddette «città modello». Il caso del progetto «Acqua azzurra» ha raggiunto visibilità internazionale dopo l’assassinio, lo scorso 3 marzo, dell’attivista del Copinh, Berta Càceres, vincitrice del premio Goldman nel 2015, da parte di sicari di Desa. L’assassinio avvenne proprio durante un periodo in cui nei villaggi Lenca si prendeva in esame un nuovo modello energetico e comunitario.

Attualmente, organizzazioni e movimenti fanno pressioni affinché siano svolte indagini sull’omicidio e si proceda alla sospensione definitiva del finanziamento al progetto. Dopo l’assassinio dell’attivista e in seguito alla visita di una delegazione internazionale con membri del Parlamento europeo, è stata riconosciuta la violazione dei diritti umani che la centrale idroelettrica ha comportato.

Agua Zarca, assieme ad altri progetti come Barro Blanco a Panama, Barillas in Guatemala, Belo Monte in Brasile o La Parota in Messico delineano la violenza del modello energetico e la connivenza tra stato e imprese in America Latina.

Sudafrica, la scommessa popolare
per la fine del carbone

L’impresa di prospezione mineraria Ibhuto-Coal ha proposto di sviluppare una miniera di carbone a cielo aperto nella regione sudafricana KwaZulu-Natal. Il progetto Fuleni si trova al confine con il Hluhluwe-iMfolozi, il parco naturale più antico dell’Africa, patria del rinoceronte bianco. Due miniere già circondano il parco: Zululand Anthracite Colliery (proprietà dell’impresa Rìo Tinto) e Somkhele (proprietà di Petmin). Attualmente entrambe le miniere sono operative e stanno generando pesanti impatti sulle comunità locali: distruzione dei siti sacri e cimiteri, perdita di case, contaminazione dell’acqua, danni alle coltivazioni e alla biodiversità della regione.

Le comunità locali si oppongono al progetto Fuleni. Il 22 aprile 2016 un migliaio di abitanti hanno fatto pressione sul comitato dello Sviluppo minerario e ambientale (Rmdec) per annullare la supervisione nella zona del progetto e togliere così legittimità alla proposta. Gli attivisti si sollevano con lo slogan «Leave coal in the hole» (Lasciamo il carbone nel sottosuolo) con l’obiettivo di fermare la vorace economia estrattiva. In alternativa propongono soluzioni strutturali per fermare il riscaldamento globale. L’idea di mettere fine allo sfruttamento del carbone e sviluppare alternative energetiche a livello locale si incontra anche nel villaggio di Sompeta in Andhra Pradesh, India, e si somma alle molte richieste di lasciare i combustibili fossili sotto terra (casi conosciuti anche come unburnable fuels).

India, l’energia eolica industriale
a scapito delle iniziative comunitarie

L’energia eolica viene ampiamente promossa come sostenibile e socialmente accettabile. Tuttavia, grandi progetti eolici nel mondo stanno portando con sé un crescente numero di conflitti, e mostrano così che gli impatti di questa industria vanno ben oltre il tema paesaggistico. In questi casi, emerge l’appropiazione dei benefit «verdi» da parte delle grandi imprese, mentre i sistemi sociali ed ecologici locali soffrono una profonda transformazione.

Un caso recente e di grande rilevanza si registra nello Stato dell’Andhra Pradesh, in India, dove un’interessante iniziativa comunitaria volta alla riforestazione e alla promozione di attività di sussistenza è stata cancellata dal progetto Nallakonda. Di proprietà della India Tadas Wind Energy, appare persino tra i progetti finanziati attraverso il Meccanismo di sviluppo pulito contro i cambiamenti climatici fortemente voluto dal governo centrale. L’installazione di più di 60 torri e turbine Enercon ha portato alla deforestazione dell’area, alla degradazione di aree produttive come pascoli e campi e di fonti d’acqua. Nel 2013 comunità locali e organizzazioni sociali hanno portato il caso al Tribunale verde nazionale, a cui spetta il parere.

Nell’EJAtlas, l’atlante internazionale dei conflitti ambientali, troviamo casi simili e di scala maggiore come i corridoi eolici: oltre 15 progetti in Oaxaca, Messico, o la privatizzazione di oltre 16.000 ettari di terreno nel Nord-est del Kenya. In questi casi, l’appropiazione della terra per l’energia rinnovabile di grande scala rappresenta una nuova frontiera per la giustizia ambientale.

Tav Italia-Francia,
l’Europa delle grandi opere militarizzate

La linea ferroviaria ad alta velocità che connetterebbe Torino e Lione lunga 220 km/h è divenuta uno dei simboli di conflitto ambientale più importanti in Europa. I lettori del manifesto conoscono bene questo caso. Aggiungiamo solo che il prossimo appuntamento internazionale della rete contro i mega progetti inutili e imposti, nata dall’incontro tra la comunità della Val Susa e altre comunità resistenti d’Europa, sarà a Bayonne, a metà luglio.

Somalia: scarichi illegali di residui, una lunga storia di colonialismo tossicoL’ 80% dei rifiuti urbani sono industriali, alle volte tossici come quelli elettronici. E nei Paesi Ue sono costosi da smaltire, soprattutto per via della legislazione che si è fatta più esigente negli ultimi decenni. Questo ha dato luogo a esportazioni, spesso illegali, di rifiuti, un fenomeno di «colonialismo tossico». Tonnellate di rifiuti tossici sono stati scaricati sulle coste della Somalia in barba alla convenzione di Basilea (1989). Nel 2004, uno tsunami fece apparire sulle spiagge somale recipienti che contenevano rifiuti pericolosi, anche nucleari. L’ong Common Community Care (2006) trovò rifiuti radioattivi e tossici in differenti luoghi della Somalia.

La stessa ong indicò che un numero non confermato di pescatori erano morti a causa delle contaminazioni. Investigazioni degli anni ’90 collegarono lo scarico dei rifiuti tossici con imprese di facciata europee associate alla mafia italiana. Nel ’94 la giornalista Ilaria Alpi fu assassinata con il suo collaboratore Miran Hrovatin mentre investigava sul commercio di rifiuti tossici in cambio di armi. L’investigazione sembrava aver portato alla luce che tanto l’esercito italiano come i servizi segreti erano coinvolti nel caso. Un anno prima era stato ucciso anche Vincenzo Li Causi, agente dei Servizi italiani e informatore della Alpi. Lo smaltimento illegale di rifiuti tossici, unito alla pesca illegale delle imbarcazioni straniere, ha compromesso gravemente i mezzi di sussistenza dei pescatori somali e favorito la loro trasformazione in pirati. Nel 2009 un’inchiesta di Wardheer News individuò che il 70% delle comunità costiere locali «sostengono la pirateria come forma di difesa delle acque territoriali».


Testi di Daniela Del Bene (coordinatrice dell’EJAtlas), Federico Demaria, Sara Mingorría, Sofia Avila, Beatriz Saes y Grettel Navas. Traduzione di Myriam Bertolucci e Daniela Del Bene.
L’atlas globale è consultabile su www.ejatlas.org; la piattaforma italiana su http://atlanteitaliano.cdca.it/
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