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Gad Lerner
I giorni più lunghi di Milano
30 Marzo 2008
Milano
In una prospettiva discutibile ma di ampio respiro socioeconomico e territoriale, la crisi della “capitale padana” com'è immaginata dal ceto politico. La Repubblica, 30 marzo 2008 (f.b.)

È mai possibile che una metropoli come Milano si giochi il suo futuro nelle prossime ventiquattro ore, quando il Bureau International des Expositions la metterà in ballottaggio con Smirne a scrutinio segreto? E se malauguratamente la realpolitik globale dovesse favorire i turchi, nonostante il generoso sforzo comune messo in atto dalle istituzioni locali e dal governo nazionale, davvero potremmo dare la colpa all’Alitalia che da oggi taglia del 72 per cento i suoi voli da Malpensa?

O magari al discredito gettato dall’incolpevole mozzarella campana su un Expo 2015 dedicato, guarda caso, al tema dell’alimentazione?

Facciamo i debiti scongiuri, confidiamo in una vittoria che è senz’altro alla portata di Milano, ma per favore – nel caso l’esito non fosse quello sperato – evitiamo fin d’ora di abboccare al surreale pesce d’aprile della "congiura contro il Nord".

La coincidenza del 31 marzo 2008, tra il declassamento di Malpensa e la scelta dell’Expo che il sindaco Moratti ha enfatizzato come passaggio decisivo del suo progetto di sviluppo per Milano, semmai ci costringe a una riflessione severa: evidenzia i rischi che corre la metropoli più dinamica del paese, fallito il progetto di farne la capitale di un’inesistente nazione padana.

Il centrodestra che da un ventennio si presenta come politica nordista, governando a lungo pure a Roma, ha lasciato che le spinte centrifughe del territorio prescindessero da un disegno di sistema efficiente. Oscillando fra il laissez faire per le imprese in cerca di diversificazione e l’illusoria protezione di quelle obsolete.

La parola definitiva su Malpensa "hub" del Nord non l’ha pronunciata il ministro Padoa-Schioppa ma il governatore forzista del Veneto, Giancarlo Galan: quel progetto non ci interessa e non ci riguarda. Evviva la sincerità: Milano rischia di andare in panne continuando a pensarsi epicentro di un sistema padano che si è sviluppato felicemente lungo circuiti diversi.

Non è vero che da domani i manager lombardi, piemontesi, veneti, si strapperanno i capelli nell’impossibilità di partire da Malpensa per l’Oriente. Il trasferimento di 886 voli Alitalia a Fiumicino provoca certo disagi e dolorose ricadute occupazionali. Ma molti imprenditori già da tempo preferiscono un’ora d’attesa in più negli scali di Francoforte, Monaco, Londra – volando "point to point" dall’aeroporto di casa propria – agli ingorghi stressanti della Serenissima e della Milano-Laghi. Gli stessi milanesi restano affezionati alla comodità di Linate. Ciò non toglie che un aeroporto come Malpensa, collocato al centro di un’area tra le più industrializzate d’Europa e in prossimità del nuovo Polo fieristico di Rho, mantenga ottime prospettive di rilancio una volta liberato dall’assurda ipoteca dei voli Alitalia (carissimi e in perdita). Purché non si affidi al sogno ricorrente ma fallimentare di una casereccia Air Padania, o peggio di un’Alitalia di nuovo caricata sulle spalle del contribuente.

Il più esplicito nel sottrarsi alla cordata elettorale di Berlusconi – una specie di colletta tra grandi imprese che acquisterebbero così titoli di merito nei confronti del suo prossimo governo – è stato un personaggio non certo sospetto di simpatie a sinistra come Bernardo Caprotti, patron di Esselunga. Che ha definito Alitalia azienda gloriosa ma decotta, ricordandoci come una destra liberista già da tempo avrebbe semmai dovuto invocarne il fallimento. Ma soprattutto ha spiegato che solo una grande compagnia internazionale, con la sua esperienza industriale e con la possibilità di investirvi miliardi, può farne un business profittevole.

Lo stesso manager leghista Giuseppe Bonomi, presidente di Sea Aeroporti Milano, va ripetendo a mezza voce (per non smentire i demagoghi della sua parte politica) che senza alle spalle un solido operatore internazionale la cordata italiana non andrà da nessuna parte.

L’Esposizione Internazionale del 2015 che verrà assegnata domani a Parigi costituisce senz’altro un volano di risorse significative. Si parla di 3,7 miliardi di investimenti diretti e di un’attrazione di risorse che sfiora i 20 miliardi. Incrociamo le dita. Ma l’attesa di questi flussi finanziari non impedisce di tracciare un bilancio della transizione post-industriale vissuta dalla più europea fra le metropoli italiane.

Nella città che ha generato la leadership politica e imprenditoriale di Silvio Berlusconi, chi si è arricchito e chi gestisce il potere reale? Vi sono certamente le banche, il cui peso si è accresciuto grazie alla proiezione internazionale ma anche in seguito alla retrocessione delle grandi aziende indebitate. Fatto sta che le famiglie più influenti, anche dopo l’accumulazione straordinaria di cui si sono resi protagonisti alcuni stilisti, restano quelle che gestiscono rendite immobiliari e petrolifere. Le reti attrattive di saperi e di risorse, tipiche delle altre metropoli europee contemporanee, per fortuna esistono anche qui. Ma sopraffatte da potentati speculativi, bisognosi di protezione e poco propensi alla revisione dei privilegi che li avvantaggiano. Pur di tutelarsi nei salotti buoni, sono disposti a investirvi in perdita.

Una Malpensa liberata dal monopolio Alitalia e un Expo 2015 sottratto alla consorteria dei soliti noti, costituirebbero un’occasione formidabile di crescita per una Milano finalmente sottratta all’ideologia fasulla della questione settentrionale. Chissà che non possiamo ricordare questo fatidico lunedì 31 marzo 2008 come un passaggio difficile ma felice, oltre il vittimismo e l’assistenzialismo.

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