La nostra sfortuna è stata nella coincidenza storica tra due eventi: da un lato, cresceva la consapevolezza della catastrofe planetaria cui lo sviluppo del capitalismo ci stava conducendo; dall'altro, negli stessi l'ideologia e la prassi di quel devastante sviluppo divenivano dominanti. Il manifesto, 21 settembre 2014
Forse il problema non sarebbe stato insormontabile se fosse emerso in un momento storico diverso ma per grande sfortuna di tutti noi, la comunità scientifica è giunta a formulare la sua diagnosi decisiva sulla minaccia climatica proprio nel momento in cui le élite assaporavano un potere politico, culturale e intellettuale senza paragoni se non con i primi anni Venti del ’900. Governi e scienziati, infatti, hanno cominciato a parlare seriamente di tagli drastici alle emissioni di gas serra nel 1988 — proprio l’anno in cui si profilò quella che si sarebbe chiamata «globalizzazione» e l’anno in cui fu firmato il Nafta, l’accordo sulla più grande intesa commerciale del mondo. All’inizio, tra il Canada e gli Stati Uniti, diventato poi, con l’inclusione del Messico, l’accordo Nafta.
Quando gli storici osserveranno in retrospettiva i negoziati internazionali dell’ultimo quarto di secolo vedranno due processi cruciali spiccare sugli altri. Il primo sarà quello del negoziato mondiale sul clima, che procede avanzando a stento, senza mai raggiungere i propri obiettivi. L’altro sarà il processo di globalizzazione delle grandi imprese, che invece avanza spedito di vittoria in vittoria (…).
I tre pilastri su cui si fondano le politiche di questa nuova era li conosciamo bene: privatizzazione della sfera pubblica, deregolamentazione di tutte le attività di impresa e sgravi fiscali alle multinazionali, tutti pagati con tagli alla spesa statale.
Molto è stato scritto sui costi reali di queste politiche: l’instabilità dei mercati finanziari, gli eccessi dei super ricchi, la disperazione di poveri sempre più sfruttati, lo stato fallimentare di infrastrutture e servizi pubblici. Pochissimo, invece, è stato scritto sul modo in cui il fondamentalismo del mercato, sin dai primi momenti, ha sabotato in maniera sistematica la nostra risposta collettiva al cambiamento climatico, una minaccia che si è profilata proprio quando quella ideologia era al suo apice.
Il problema centrale è che l’abbraccio mortale esercitato in questo periodo dalla logica di mercato sulla vita pubblica fa apparire le reazioni più ovvie e dirette alle questioni climatiche come un’eresia politica. Per fare un esempio: come si può investire massicciamente in servizi pubblici e infrastrutture a emissioni zero in un momento in cui la sfera pubblica viene sistematicamente smantellata e svenduta? I governi come possono regolamentare, tassare e penalizzare pesantemente le aziende di combustibili fossili in un momento in cui qualsiasi manovra del genere viene liquidata come un residuo di comunismo autoritario? E, infine, come si può dare sostegno e tutele al settore delle energie rinnovabili per sostituire i combustibili fossili quando «protezionismo» è diventata una parolaccia?
Se fosse stato diverso, il movimento per il clima avrebbe tentato di sfidare l’ideologia estrema che sta ostacolando tante azioni sensate, avrebbe unito le forze con altri settori per dimostrare che il potere delle corporation, lasciato senza freni, rappresenta una grave minaccia per l’abitabilità del pianeta.
Gran parte del movimento per il clima, invece, ha sprecato decenni preziosi nel tentativo di incastrare la chiave quadrata della crisi climatica nella toppa rotonda del «capitalismo deregolamentato», alla ricerca infinita di soluzioni al problema che fossero fornite dal mercato stesso.