Quando l´attuale presidente del Consiglio, davanti a 12 milioni di testimoni, ha condannato la pretesa della sinistra di «rendere uguale il figlio del professionista al figlio dell´operaio», egli è andato al fondo delle cose. Come in un testamento, ci lascia una straordinaria sintesi del senso della lunga rissa scatenata contro la Costituzione dalla sua coalizione di estremisti. Perché qui, in quella condanna – mai udita in questo Paese da quando si cominciò a costruire lo Stato unitario (e neppure, perfino, in regime fascista) – c´è la rivelazione del «programma». Un programma che non ha nulla a che fare con il liberismo fiscale e neppure con la devolution e le altre slegature dell´organizzazione della Repubblica racchiuse nel container in attesa di referendum costituzionale.
È un programma che va oltre perché è un piano di rottura dell´idea stessa di «repubblica», idea che trova svolgimento nei principi fondamentali scritti nella Costituzione. Principi valoriali che, però, non sono stati creati dalla Costituzione ma da essa sono «riconosciuti» e codificati. «Scritti» così come erano stati vissuti nella storia degli italiani, nella narrazione delle loro origini.
Quella rottura si consuma perciò con la chiarezza di una epifania quando per bocca del premier, si dice l´esatto contrario di quello che nella Costituzione è scritto all´articolo 3: «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana»...
A un programma costituzionale di progressiva eliminazione delle disuguaglianze – anche, com´è ovvio, con misure fiscali di equità – si contrappone, dunque, un concetto di pietrificazione sociale, di «stabilizzazione» classista. E si capisce subito come questo concetto si scontri frontalmente con il criterio costituzionale della progressività dell´imposta (art. 53). Dice questo criterio che tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche, tenendo conto delle loro risorse, della loro capacità contributiva. Dice anche che i redditi dei contribuenti non possono sopportare spettacolari differenziazioni – come quelle ora esistenti nel nostro sistema fiscale – in ragione della diversità della loro fonte.
Ma vi è di più: quel concetto berlusconista va anche contro il programma di cittadinanza piena e inclusiva che la Costituzione disegna quando «riconosce» (ancora questo verbo: carico di storia e di umiltà statale) e «promuove» le autonomie locali, garantendo ad esse l´integrale finanziamento delle funzioni pubbliche loro attribuite (artt. 5 e 119). Le autonomie locali, dunque. Come indicazione preferenziale delle comunità di vita e di destino, in cui meglio si conosce, per i lunghi secoli della straordinaria storia comunale italiana, la geografia sociale dei bisogni e delle fragilità delle città e dei cittadini. Togliere, dopo cinque anni di strette finanziarie, ancora soldi a questa Italia profonda, mettere con il taglio delle imposte locali (ICI, rifiuti...) le mani in tasca ai comuni, significa rendere ancora più netta e profonda – sopprimendo servizi pubblici – la frattura sociale di questi ultimi tempi: con i ricchi più ricchi, i poveri più poveri e la classe media sempre più sullo scivolo.
Si capiscono, allora meglio certe espressioni di disprezzo per quegli «altri» che sostengono invece le regole di equità fiscale, di solidarietà, di coesione comunitaria. È la stessa contrapposizione che si trovava in un tempo (per fortuna) passato in certe repubbliche sud-americane. Dove gli «altri» – quelli che si opponevano a forme di Stato e di governo, dominate nei secoli dai caudillos espressi dai «beati possidenti» – erano chiamati semplicemente, «los rotos». Quelli che la nascita, la fortuna, la vita avrebbero semplicemente «rotto». E che, invece, erano, come spesso accadeva, l´anima vibrante, la cultura popolare di quegli Stati lontani.
Ma in quella stupefacente «confessione» di un premier precario risulta anche chiara una congiunzione anti-repubblicana. Da un lato, questo attacco al principio di uguaglianza che la Corte costituzionale, in una sentenza di 40 anni fa, ha propriamente indicato come il «principio che condiziona tutto l´ordinamento nella sua obiettiva struttura». Dall´altro lato, l´attacco, portato per una intera legislatura, alla struttura unitaria dell´organizzazione della Repubblica, ai suoi equilibri, alle sue garanzie, al suo stesso funzionamento: l´attacco che ha prodotto lo squallido disegno di eversione, la devolution Bossi-Calderoli, sotto giudizio referendario.
Questo ricongiungimento dei progetti anti-costituzionali fa anche toccare con mano la necessità di «unificare i processi» alla legislatura che è passata e al governo e alla maggioranza che ne sono stati responsabili. Non si possono tenere distinte, in questo clima, le poste in gioco nel gran risiko italiano. Domani e lunedì sono in ballo quattro scelte decisive: sul parlamento, sul governo, sul presidente della Repubblica, sulla Costituzione. Quattro scelte con un solo voto.
Si voterà infatti per un parlamento che per essere veramente nuovo, dovrà innanzitutto esprimere presidenti di assemblea capaci di ricucire la tradizione garantista interrotta dagli ultimi due. Che dovrà essere capace di esprimere un governo forte e stabile ma anche di controllarlo: perché il potere solitario, anche quando è un potere amico, si logora e si corrompe.
Si voterà poi per un governo che governi secondo l´interesse nazionale, bussola insuperabile nella normale dialettica di coalizione. Che riesca a ricomporre la frattura sociale e la frattura civile, apertesi nel Paese, e la frattura europea, apertasi nell´Unione (riassunta nell´appello-copertina dell´Economist che sta facendo il giro del mondo...).
Ma si voterà anche per un presidente della Repubblica che abbia il compito di continuare l´opera di pacificazione e di concordia nazionale tenacemente perseguita, malgrado tutto, senza dissipare un solo giorno del suo mandato, da Carlo A. Ciampi. Il parlamento che uscirà dalle urne imminenti sarà, infatti, quello stesso che, quindici giorni dopo, voterà per l´erede di Ciampi o per Berlusconi.
E si voterà anche per la Costituzione: perché la maggioranza parlamentare che verrà fuori, lunedì alle cinque della sera, avrà poi una fortissima capacità di trascinamento sul referendum di giugno. E quindi questo referendum costituzionale «si farà», anticipato nella sua intima sostanza, anche esso, domenica e lunedì.
Allora: un parlamento, un governo, un presidente della Repubblica, una Costituzione. Tutto si tiene in brevissimo spazio. Mai un voto sono decise tante cose incrociate per il destino nazionale.
Il 2 di giugno del 1946 nacque la Repubblica e si cominciò a scrivere la Costituzione come sua ragione di esistenza e insieme come programma per il suo futuro. 60 anni dopo, il 2 giugno 2006, rischiamo di avere, con un governo complice, una specie di nuova forsennata monarchia al Quirinale. E in più il rischio di una Costituzione «incostituzionale» perché fatta contro il nucleo dei principi e dei valori che da allora ne formano l´identità e le danno la carica propulsiva.
Nel vicino weekend degli Ulivi noi decideremo su tutto questo. E ci ricorderemo certo della parabola del «figlio dell´operaio» e del «figlio dell´ingegnere» raccontataci dal signor presidente del Consiglio.