il manifesto, 6 giugno 2017
Cominciando dal nuovo ordine globale dopo la prima Guerra mondiale, la narrazione storica presenta un mondo sempre più interconnesso dal punto di vista economico e in espansione rispetto alle tecnologie di comunicazione. L’Europa si è sviluppata secondo l’internazionalismo liberale wilsoniano e ha superato l’era delle monarchie e degli imperi. Il panorama politico europeo consisteva in moderni stati nazione, i cui cittadini erano in possesso di un passaporto e di diritti civili, mentre negli anni Venti del Novecento la Società delle Nazioni come organismo sovranazionale si rivolgeva ai soggetti coloniali almeno nel caso di ex possedimenti degli stati conquistati.
Sempre in quegli stessi anni, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha lavorato per la diffusione su scala globale di leggi sul lavoro, introducendo patti tra i sindacati, gli stati e i lavoratori come misura contro lo sviluppo del movimento comunista. Ad un’analisi più approfondita, però, gli stati nazione moderni, nati dopo il 1919, seguivano l’idea di un’entità omogenea basata sullo stesso linguaggio, religione ed etnia, tutti e tre questi fattori combinati in una concezione essenzialista del nazionalismo e del patriottismo.
Accanto a questo processo di costruzione della nazione e tenendo conto dell’evoluzione del «mondo in connessione», in una dicotomia ossimorica, gli strumenti dell’esclusione e della marginalizzazione si sono decisamente diffusi. Anche l’istituzione di diritti delle minoranze era basata sulla individuazione dell’alterità. Va sottolineato il fatto che l’idea dell’esistenza di un’autenticità etnica, considerata un fattore di modernità, ha nutrito l’anti-semitismo e legittimato l’eliminazione delle popolazioni nomadi.
La società delle Nazioni si vantava di avere supportato e organizzato un cosiddetto «scambio di popolazioni» tra la Grecia e la Turchia nel 1923. L’organizzazione di stampo coloniale ancora vigente differenziava tra cittadini e soggetti originari delle colonie e offriva tutte le ragioni per legittimare differenti gradazioni di diritti civili, minando ciò che era stato dichiarato come universale e innegabile dalla tradizione dell’Illuminismo.
Utilizzando il concetto di cittadinanza, lo stato ha lavorato alla produzione di strumenti di esclusione, utilizzando la difesa dallo snaturamento «etnico» di una nazione come metodo. Un processo usato quasi ovunque nel mondo dopo il 1919, dall’Unione Sovietica agli stati fascisti. Di conseguenza, la lista di coloro che non rientravano nel contesto sociale di quella che era immaginata come una nazione etnicamente autentica era cresciuta significativamente ben prima che Hitler instaurasse il regime nazista in Germania.
Il risultato di queste molteplici forme di esclusione è di avere creato un nuovo tipo umano migrante. La denominazione contemporanea di profughi, nemici stranieri, sfollati ci dà un’idea di quanto il mondo dal ventesimo secolo si sia allontanato dal cosmopolitismo kantiano. Così, un supposto background trans-culturale si è trasformato nella più pericolosa e indesiderata questione durante il ventesimo secolo.
Mentre si concentrano sugli strumenti legali di esclusione, i governi elevavano a imprescindibile essenza la nozione di uno stato nazione etnicamente omogeneo, generando la riduzione della diversità culturale, con conseguenze devastanti. Come spiega Timorhy Snyder nel suo libro impressionante e terrificante Terre di sangue (Rizzoli), dopo Hitler e Stalin il tessuto sociale cosmopolita dell’Europa dell’Est è stato distrutto per sempre.
Ma così facendo, discutiamo su un problema europeo e sulla storia del fascismo? Non esattamente. L’inclusione dell’Asia conferma l’organizzazione ossimorica di un mondo sempre più connesso da una parte e di una distanza sempre maggiore tra i diritti politici e sociali, se paragonati alla protezione delle catene di merci e di oggetti e alle relazioni economiche, dall’altra parte. Invece di una continuazione del «mondo in connessione» come si era sviluppato nel tardo Ottocento, una separazione del mondo caratterizza il ventesimo secolo. Fino ad oggi, coloro che sono stati esclusi dalla protezione nazionale hanno avuto raramente una voce. Ciò che conosciamo, al di là delle testimonianze autobiografiche, risulta dagli strumenti che gli stati hanno utilizzato in un processo di marginalizzazione delle persone, per esempio le decisioni in merito all’immigrazione, il rifiuto della convalida dei passaporti, i tentativi di propaganda in contesti ideologici e politici vari.
Durente la Seconda Guerra Mondiale, la sovrapposizione tra la marginalizzazione e la connessione globale aumentò. Le parti in guerra imprigionarono civili in campi di internamento in Asia, Europa e Stati Uniti con l’accusa di essere «nemici della nazione». A partire dal 1942, una serie di accordi complessi tra gli stati belligeranti portarono ad attività di rimpatrio sia del corpo diplomatico, ma soprattutto di civili. Alcuni di loro avevano vissuto per anni in luoghi ora chiamati «esteri» rispetto alla loro nazionalità, sebbene le espressioni «nemici stranieri» e «rimpatrio» non corrispondessero alla loro concezione di sé.
In questo contesto sociale, il teatro europeo della guerra era ugualmente presente nel Pacifico, come testimonia l’esperienza delle navi di scambio che spesso ospitavano diplomatici che rappresentavano uno dei molti organismi di governo in esilio a Londra. Sulle navi di scambio era sempre presente un delegato svizzero, custode del rispetto dei patti definiti internazionalmente. In un caso, il delegato svizzero sperò in una breve tappa in Vietnam organizzata dalla Francia di Vichy quando i rappresentanti del movimento della Francia Libera di De Gaulle erano saliti a bordo. In altri casi, le famiglie ebree ebbero grossi problemi coi passaporti. Lo stesso accadde alle molte persone bloccate a Shangai dopo un lungo viaggio dall’Europa Occidentale attraverso la Siberia o dalla Siria e dall’Egitto. I missionari americani dalla Cina si incontrarono con i diplomatici latinoamericani a Manciukuò e in Corea per gestire il possibile ingresso di persone in fuga nei loro paesi. In molti di questi casi, che hanno ottenuto visibilità grazie alla prospettiva degli European Global Studies, il rimpatrio è stato un atto di migrazione forzata, realizzato su navi neutrali, noleggiate specificatamente con questo scopo.
Le navi partivano da porti americani, inglesi e asiatici e navigavano per i cosiddetti scambi verso porti neutrali in Portogallo, Goa e Mozambico. C’era sempre un delegato svizzero a bordo, che vigilava sulle condizioni di scambio negoziate, per esempio controllando la lista dei passeggeri, la gestione dei bagagli, delle merci e del denaro. Visto che la Svizzera riceveva tutte le informazioni da entrambi le parti in trattativa, le fonti presenti negli Archivi Svizzeri permettono uno sguardo unico su una delle operazioni più spettacolari e meno studiate che la guerra nel Pacifico offre.
Da questo esempio, pressoché sconosciuto nella storia per altro ben approfondita della Seconda Guerra Mondiale, comprendiamo fino a che punto una guerra globale determina nuovi modi di connessione e come si siano aperti nuovi spazi di scambio con l’Africa, come importante centro nevralgico. Impariamo che tali operazioni di scambio coinvolsero un considerevole numero di strutture che trasformarono piccoli stati neutrali in potenti agenti di relazioni.
In ogni caso, incrementando strumenti e metodi di connessione, le attività descritte hanno distrutto le società transculturali nei porti asiatici. La conseguenza è stata che la conoscenza e le competenze globali sono diventate fonti di sospetto, da un punto di vista nazionale. Sia le potenze dell’Asse che gli alleati effettuarono interrogatori meticolosi ai loro cittadini rimpatriati per ottenere informazioni che avessero rilevanza militare. La comunità a bordo, quindi, rispecchiava ogni sorta di biografia rotta, reindirizzata e distrutta nel limbo della non-appartenenza. La sovrapposizione antitetica di mercati connessi e di comunità globali separate o addirittura distrutte si è perpetuata anche nel periodo della Guerra Fredda.
Quali sono le conseguenze a lungo termine di una storia del ventesimo secolo raccontata dal punto di vista della separazione? In contrasto col contesto di una società di consumi neoliberale, la storia della separazione individua un vuoto sociale, politico e culturale nella comprensione delle opportunità e delle emergenze delle vite di chi attraversa le frontiere, in quanto risorse umane per la costruzione di identità fondate su competenze globali. Le leggi sull’immigrazione di oggi propongono verifiche negative – l’ossimoro «migrante temporaneo permanente» può servire, quindi, come esempio.
Traduzione di Laura Marzi