In occasione del Vertice umanitario mondiale dell’Onu, a maggio in Turchia, il vicepresidente keniano William Ruto ha dichiarato che è ormai definitiva la decisione di chiudere Dadaab e Kakuma, i due campi profughi più grandi del paese.
E questo nonostante le chiusure siano una violazione del diritto internazionale e le Nazioni Unite abbiano avvertito delle “devastanti conseguenze” che ne deriveranno. Più di 600mila persone residenti saranno sfollate e si troveranno in una situazione di rischio immediato. La chiusura forzata tradisce inoltre i più elementari diritti dei rifugiati e non farà altro che inaugurare una serie di violazioni dei diritti umani, dal momento che facendo ritorno nel loro paese natale i profughi dovranno affrontare conseguenze molto pesanti.
La decisione del Kenya ha dei precedenti. Nel 2012 il governo della Tanzania aveva chiuso il campo profughi di Mtabila, costringendo i suoi 35mila abitanti burundesi a trovarsi una nuova sistemazione in Burundi, il paese in cui dilagava un conflitto violento dal quale erano fuggiti. Da allora le violenze in Burundi hanno costretto più 250mila abitanti del paese a cercare rifugio nei paesi vicini, e 137mila sono tornati in Tanzania.
Soluzione definitiva
E tuttavia la situazione del Kenya è il sintomo di un problema più ampio e sostanziale. Il nodo cruciale è che i campi rappresentano la base della strategia di risposta alle crisi di profughi messa in atto dalla comunità internazionale. Sono diventati il collettore della maggioranza degli aiuti umanitari. I campi sono diventati l’inizio, e in molti casi lo scopo, dell’intervento internazionale nelle crisi di profughi sempre più numerose.
Oggi più della metà della popolazione di profughi al mondo – circa il 60 per cento – risiede in aree urbane e non nei campi
La vicenda del Kenya sottolinea la necessità urgente di trovare alternative sostenibili ai campi e soluzioni sostenibili per i milioni di profughi urbani che li hanno lasciati o hanno scelto di evitarli. Oggi più della metà della popolazione di profughi al mondo – circa il 60 per cento – risiede in aree urbane e non nei campi. E una schiacciante maggioranza, l’86 per cento, si trova nei paesi più poveri.
In queste aree urbane, organizzazioni non governative di tutto il mondo mostrano la possibilità di creare alternative ai campi profughi. Con i loro programmi cercano di offrire ai profughi la possibilità di conquistare l’indipendenza dagli aiuti internazionali, trovare un modo per vivere dignitosamente e mezzi di sostentamento di lungo periodo che al tempo stesso hanno ricadute positive sulle comunità che li ospitano.
Un programma in Kenya, per esempio, fornisce un riparo e un sostegno a donne e bambini, che compongono più della metà della popolazione mondiale di profughi e sono esposti a gravi rischi di violenza sessuale e di genere. La casa famiglia garantisce la sicurezza 24 ore al giorno e fornisce importanti servizi di orientamento, assistenza legale e sanitaria e una comunità accogliente nei confronti delle ospiti. Il programma inoltre facilita le strategie di uscita positive per le donne, mettendole in collegamento con sistemazioni di lungo periodo un supporto sostenibile all’interno della comunità locale.
In molti casi sono i profughi stessi a guidare le iniziative di solidarietà nei paesi di accoglienza. Ma hanno poche risorse e nessun sostegno internazionale
In un altro programma a Irbid, in Giordania, sono state aperte delle abitazioni per accogliere i profughi siriani. A Irbid quello della casa è un problema di vecchia data. I programmi basati sull’affitto in cambio di soldi offrono soluzioni temporanee ma fanno schizzare alle stelle gli affitti nel mercato locale degli alloggi e rendono la vita più difficile agli abitanti del posto e ai profughi. Il programma di Irbid è sostenuto dal Consiglio norvegese per i profughi (Nrc) e offre ai proprietari locali fondi per completare la costruzione di edifici a più piani, creando abitazioni per i profughi e al tempo stesso stimolando l’economia locale. Fino a oggi sono state create 3.800 unità immobiliari per più di 8.700 profughi, e mentre altri ottomila sono in lista d’attesa l’Nrc può estendere le attività in altre aree urbane su tutto il territorio della Giordania.
Oltre a questo tipo di programmi messi in campo dalle ong, tante organizzazioni comunitarie forniscono un supporto vitale. Rappresentano spesso l’unica fonte di sostegno per i profughi urbani che in molti casi sono alla guida delle iniziative.
Fare promesse realistiche e mantenerle
Un esempio è l’organizzazione Young african refugees for integral development (Yarid), che dal 2008 è attiva nella comunità di profughi di Kampala, in Uganda. I fondatori di Yarid, profughi sfuggiti alle violenze nella Repubblica democratica del Congo e stabiliti in Uganda, hanno dato vita alla loro organizzazione dopo aver osservato le difficoltà affrontate dagli altri profughi come loro. Oggi Yarid rappresenta una comunità vitale che affronta questioni sociali come la disoccupazione, la salute pubblica e i conflitti etnici e fornisce servizi educativi fondamentali ai profughi urbani dell’Africa centrale. Tuttavia, a causa della scarsità di risorse e dell’assenza di un sostegno internazionale queste organizzazioni faticano a sopravvivere.
Oggi, una persona su 122 è costretta a vivere lontano dalla sua casa. La crisi è reale e la situazione in Kenya non è che un esempio di quanto sia ormai precaria la nostra dipendenza globale dal sistema dei campi. Se vogliamo che le alternative funzionino, dobbiamo investire in quello che funziona.
I campi profughi non stanno funzionando, al contrario di tanti programmi in tutto il mondo. È giunto il momento che la comunità internazionale dimostri il suo impegno a risolvere la crisi globale dei profughi investendo in soluzioni che mantengono promesse realistiche.
Articolo pubblicato dal The Guardian, traduzione di Giusy Muzzopappa