ondi respingendo chi tenta di evadere da miseria e repressione. e-mail dell'11 dicembre 2013
Un’operazione militare e umanitaria, l’hanno ipocritamente definita il Governo e lo Stato Maggiore della Difesa, rispolverando l’espressione utilizzata per giustificare gli interventi di guerra in Bosnia, Kosovo, Iraq, Afghanistan, Libia e Corno d’Africa ed aggirare la Costituzione e il senso comune. “Si prevede il rafforzamento del dispositivo italiano di sorveglianza e soccorso in alto mare già presente, finalizzato ad incrementare il livello di sicurezza della vita umana ed il controllo dei flussi migratori”, recita il contorto comunicato ufficiale della Presidenza del Consiglio, mettendo insieme improbabili intenti solidaristici e le immancabili logiche sicuritarie e repressive.
Vaghi i compiti e le funzioni attribuiti alle forze armate; volutamente inesistenti le regole d’ingaggio, ma dettagliatissimo l’elenco dei dispositivi di morte impiegati per rendere off limits il Mediterraneo. All’operazione Mare Mostrum sono presenti quasi tutte le più sofisticate produzioni del complesso militare-industriale del sistema Italia. Sul fronte anti-migranti esordisce la nave d’assalto anfibio LPD di 133 metri di lunghezza “San Marco”, che, come ha spiegato il ministro della Difesa Mario Mauro, ha la “capacità di esercitare il comando e controllo in mare dell’intero dispositivo, con elicotteri a lungo raggio, capacità ospedaliera, spazi ampi di ricovero per i naufraghi e un bacino allargabile per operare con i gommoni di soccorso in alto mare”. Poi due fregate lanciamissili classe “Maestrale”, ciascuna con 225 uomini e un elicottero imbarcato; un’unità da trasporto costiero, classe “Gorgona” per il supporto logistico; due pattugliatori d’altura classe “Comandanti/Costellazioni”; due corvette della classe “Minerva”.
Per l’Operazione Mare Nostrum sono utilizzate anche le Reti radar della Guardia Costiera e della Guardia di finanza, le Stazioni dell’Automatic Identification System della Marina militare e, per la prima volta nella storia per operazioni di vigilanza delle frontiere, finanche un velivolo senza pilota “Reaper MQ 9” del 32° Stormo dell’Aeronautica militare di Amendola (Fg). Quest’ultimo non è altro che uno dei droni-spia già utilizzati dall’Italia nelle guerre in Iraq, Libia e Afghanistan (solo in quest’ultimo conflitto il Reaper ha già totalizzato dal 2007 ad oggi 1.300 sortite a favore delle forze NATO, contro più di 6.000 obiettivi). Il velivolo teleguidato può volare fino ad 8.000 metri di quota per oltre 20 ore consecutive, consentendo di realizzare riprese elettro-ottiche, all’infrarosso e radar. Secondo il Ministero della Difesa, il drone impiegato in Mare Nostrum “svolge attività di sorveglianza aerea con il duplice fine di salvare vite umane in pericolo e identificare le navi madri, utilizzate dagli scafisti”.
“Anche se la missione annunciata è stata definita umanitaria e di soccorso, desta qualche sospetto la composizione dello strumento aeronavale navale messo in campo”, ha rilevato Il Sole 24 Ore. In particolare, il quotidiano di Confindustria pone l’accento sulle caratteristiche delle unità navali da sbarco e delle fregate lanciamissili, scarsamente utilizzabili in interventi di soccorso in caso di naufragi. “Si tratta di navi da oltre 3 mila tonnellate, pesantemente armate, con poco spazio a bordo per ospitare naufraghi e molto onerose”, aggiunge Il Sole 24 Ore, rilevando invece come queste unità consentano azioni militari più complesse, “da coordinare magari con il governo libico”. Anche lo schieramento dei droni e della “San Marco” risponderebbe all’intento strategico di contribuire al dispositivo di “contenimento” libico delle imbarcazioni di migranti. “Grazie alla loro autonomia di volo i droni possono sorvegliare costantemente i porti di partenza dei barconi consentendo alle navi militari di raggiungerli appena al di fuori delle acque libiche”, spiega ancora Il Sole 24 Ore. “La nave “San Marco” ospita anche mezzi da sbarco e fucilieri di Marina: mezzi e truppe idonei a riaccompagnare in sicurezza sulle coste libiche immigrati recuperati in mare sotto la scorta deterrente delle fregate lanciamissili”.
Ancora più esplicita l’analisi dell’ex capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica militare Leonardo Tricarico, neopresidente della Fondazione ICSA (ha sostituito il sen. Marco Minniti del Pd dopo la sua nomina a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri e autorità delegata alla sicurezza della Repubblica). “Sul piano tecnico-operativo bisognerebbe puntare su un robusto passo diplomatico con i Paesi rivieraschi per far sì che i droni, anziché essere impiegati in una ricerca senza mèta in mare aperto (non sono mezzi di sorveglianza d’area), vengano utilizzati per il pattugliamento delle coste libiche, per individuare in maniera precoce le attività preparatorie all’imbarco e fermarle per tempo”, scrive il gen. Tricarico. “In fin dei conti con la Libia vi sono già attività di cooperazione avviate, è operante un contratto per il controllo della frontiera sud, è stato formalmente accettato un piano italiano di controllo delle frontiere terrestri e marittime, stiamo addestrando da molti mesi le loro forze di sicurezza”. La rivista specializzata Analisi Difesa, vicina agli ambienti più conservatori delle forze armate, ha fatto esplicito riferimento alla recentissima stipula di accordi tra le forze armate italiane e il premier Alì Zeidan per rafforzare la presenza di polizia nelle città costiere della Libia e “impedire nuove partenze” di migranti. “L’obiettivo di riportare in Libia i barconi, bloccandoli appena lasciano le coste nordafricane – scrive Analisi Difesa - giustificherebbe la presenza di navi da guerra come le “Maestrale” (utili a esprimere deterrenza contro le milizie libiche armate fino ai denti) e la “San Marco”.
Legittimo dunque il sospetto di alcuni giuristi e delle associazioni antirazziste e di difesa dei diritti umani secondo cui con “Mare Nostrum” si potrebbero ripetere ed ampliare le deportazioni di migranti e richiedenti asilo che furono eseguite qualche anno addietro dai Paesi NATO in accordo con le autorità governative libiche. In verità, dopo il varo del governo Letta dell’operazione militare-umanitaria, lo stesso ministro Angelino Alfano ha ammesso che i migranti fermati in mare dalle unità della Marina e dell’Aeronautica potrebbero essere “sbarcati” in alcuni porti sicuri della sponda sud del Mediterraneo. “Ci sono le regole del diritto internazionale della navigazione e non è detto che se interviene una nave italiana porti i migranti in un porto italiano”, ha precisato il ministro dell’Interno. Come sottolineato dal prof. Fulvio Vassallo Paleologo, componente del Consiglio direttivo dell’ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), con gli auspicati “sbarchi” di migranti in porti “sicuri” non italiani, “c’è il rischio fondato che si ripetano i respingimenti verso i paesi che non garantiscono la tutela dei diritti umani, come è accaduto nel 2009, quando la Guardia di Finanza italiana riportò in Libia decine di migranti”. Una pratica per la quale l’Italia è stata condannata, nel 2012, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.