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Daniele Martini
Grandi opere? Nel 2050
3 Luglio 2010
Articoli del 2010
Morale della favola: i discorsi e i dispositivi sulle G.O. non sono serviti a fare opere, ma a spostare il potere dal pubblico al grosso privato. Il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2010

Con questi ritmi nel 2050 i cantieri delle Grandi opere saranno ancora aperti. La previsione proviene da una fonte autorevole, anzi da una delle fonti più autorevoli in materia di costruzioni e infrastrutture, il Cresme, Centro di ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio. Nel 2009 l’istituto aveva calcolato che dopo quasi un decennio dall’avvio dell’operazione grandi infrastrutture prevista dalla legge Obiettivo varata nel 2001, l’avanzamento dei lavori era di appena il 10 per cento. Il rapporto 2010 che sarà consegnato tra qualche giorno alla Camera dei deputati registrerà un lieve incremento rispetto a quella cifra, ma il traguardo resta lontanissimo. Secondo i piani originari, invece, proprio nel 2010 tutti i lavori dovevano essere terminati. Un fiasco totale.

La legge Obiettivo non ingrana e non funziona. Quando fu lanciata, ai tempi del passato governo Berlusconi, la lobby potente dei grandi costruttori riuniti nell’Agi più l’Ance allora guidata da Claudio De Albertis, e il ministro dei Lavori pubblici dell’epoca, Pietro Lunardi, garantirono che grazie a quella norma innovativa e rivoluzionaria, l’Italia avrebbe conosciuto un secondo Rinascimento. Il gigantesco piano di infrastrutture programmate avrebbe ridato lustro e slancio al Paese dopo la lunga stagnazione e addirittura la regressione seguita alla fase eroica del Dopoguerra e a quella molto fruttuosa degli anni Sessanta.

Fu a quei tempi e in forza di quegli scintillanti piani di rilancio che Berlusconi cominciò a proporsi come l’“Uomo del fare”. Peccato più per l’Italia che per lui che le Grandi opere restino al palo e che nonostante tutte le chiacchiere stia scadendo a livelli infimi la dotazione infrastrutturale del Paese, un tempo tra le più efficienti e avanzate d’Europa. Se i lavori non procedono non è colpa dell’effetto Nimby (Not in my Backyard, cioè fate pure, ma lontano da casa mia) o dell’interdizione della lentocrazia, come spesso si cerca di far credere. L’opposizione delle comunità locali e la vischiosità delle procedure amministrative la loro influenza ce l’hanno, ma non sempre e non in maniera determinante.

Dopo un decennio di false partenze ormai è chiaro: è proprio la legge Obiettivo che non aiuta, sono i suoi meccanismi, i suoi presupposti e il suo impianto che non favoriscono la realizzazione delle grandi infrastrutture. Anzi, la rallentano a causa di un sistema imperniato su pochi general contractor, i contraenti generali, le grandi imprese che ormai sono diventate padrone ed arbitre della situazione, come di recente ha sottolineato anche l’Autorità per le opere pubbliche. Da Impregilo ad Astaldi, sempre le stesse aziende, sempre così poche che bastano le dita di due mani per contarle. Stando così le cose Berlusconi rischia di passare alla storia italiana delle infrastrutture non come l’“Uomo del fare”, ma come il “Grande rallentatore”. Lo stesso monitoraggio della legge Obiettivo è diventato un’impresa. Chi cerca di decifrarne il percorso si imbatte di anno in anno in difficoltà crescenti, in un tourbillon di opere che entrano ed escono dal programma, gonfiato e sgonfiato come una fisarmonica a seconda delle circostanze. Quando nel 2006 il centrosinistra vinse le elezioni e al governo andò Romano Prodi si posero almeno il problema di rimettere mano alla legge e di ricondurla ad un profilo di ragionevolezza, sfrondando lo sfrondabile e classificando come veramente grandi e quindi degne di entrare nel programma una manciata di opere davvero strategiche, non di più.

Ma anche quelle sono rimaste solo buone intenzioni e nel 2008 Prodi ha dovuto cedere la guida del governo di nuovo a Berlusconi. In appena due anni, da aprile 2007 ad aprile 2009, il numero delle opere in programma è ulteriormente aumentato di 31 unità (più 13 per cento circa), e ora le opere considerate fondamentali sono quasi 300. Di recente c’è stata un’altra bella infornata. L’edilizia carcera-ria, per esempio, e poi il nuovo programma di edilizia scolastica con l’appendice delle scuole dell’Abruzzo (226 milioni di euro). E ancora la ricostruzione degli edifici istituzionali delle zone terremotate e dell’università de L’Aquila (altri 400 milioni e passa), l’aeroporto Paolo Borsellino di Palermo, lo scalo Dal Molin di Vicenza, la ferrovia Sud-Est Napoli-Bari e l’adeguamento di tutta la rete ferroviaria meridionale, la strada Licodia-Eubea in Sicilia, la strada statale Picente, il sistema della flottiglia dei laghi del Nord, la tangenziale di Napoli e Pozzuoli, i nodi urbani di Bari e Cagliari. Con quali criteri sono state inserite queste opere? Nessuno lo sa. L’impressione è che entrate ed uscite rispondano a pressioni estemporanee di lobby e che l’inserimento di nuovi progetti più che al riammodernamento organico e programmato delle infrastrutture serva a dare argomenti di propaganda in campagna elettorale. L’unico aspetto che avanza in fretta e in modo inesorabile sono i costi: all’inizio il piano delle Grandi opere costava 125 miliardi di euro, alla fine 2009 eravamo a 320, ora siamo a 350 almeno, quasi il triplo, ma gli esperti prevedono che cresceranno ancora. Non è affatto chiaro dove potranno essere reperiti tutti quei soldi e di mese in mese aumenta il sospetto che ormai il piano infrastrutturale sia un guscio vuoto, un guazzabuglio in cui quasi più nessuno riesce a raccapezzarsi. La stessa relazione annuale preparata dal 2004 in poi per la Commissione lavori pubblici della Camera dal Cresme è un prezioso quanto snobbato documento di analisi, perché i deputati che dovrebbero usarla come il pane quotidiano, da tempo hanno preso a considerare tutto l’ambaradam delle Grandi opere come una macchina non più manovrabile, almeno dai banchi del Parlamento. Uno dei pochi che ancora in qualche modo riesce a padroneggiare la faccenda perché ha contribuito a far nascere il progetto e lo conosce come le sue tasche è Ercole Incalza, il tecnico di area socialista che già ai tempi della Prima Repubblica contava più dei ministri nel palazzo di Porta Pia sede dei Trasporti, dei Lavori pubblici e poi delle Infrastrutture. Di recente anche Incalza è finito nel vortice dello scandalo della cricca collegata a Diego Anemone per via di mezzo milione di euro che sarebbe uscito dalle casse della ditta del costruttore dei Castelli romani per l’acquisto di una casa del genero dello stesso Incalza, il quale in seguito allo scandalo ha simbolicamente offerto la sua testa al ministro Altero Matteoli ricevendo una pronta riconferma di fiducia.

Di fronte al fallimento palese di un progetto che non decolla, un governo con a cuore le sorti del Paese riprenderebbe in mano la faccenda riconsiderandola da capo a fondo. È abbastanza probabile, però, che non succeda e che la legge Obiettivo continui il suo opaco, lentissimo e costosissimo percorso. La conseguenza sarà che anche per ferrovie, strade, porti, tangenziali e metropolitane, l’Italia continuerà a perdere inesorabilmente terreno rispetto all’Europa.

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