Oggi di ambiente si parla ormai moltissimo: giornali, riviste, radio, tv, tutti sembrano ritenere doveroso offrire articoli, servizi, programmi riguardanti la materia, che solo raramente però sono tali da creare una consapevolezza adeguata alla sua complessità e crescente gravità. Quasi mai infatti ai affronta il problema nella sua interezza, come sarebbe necessario: per lo più limitandosi a singole tematiche, che possono riguardare la scarsità di carburanti, il doveroso rispetto dei boschi, l’acquisto di frutta e verdura non trattate chimicamente, che altro. Frammenti di “sapere ecologico” insomma, spesso proposti come decisivi, ma di fatto lontani dalla complessità del problema e dalla possibilità di crearne una consapevolezza adeguata. Tanto più che la logica economica dominante nel mondo, quella che dovunque ormai ne definisce e detta scelte e obiettivi, obbedisce all’indiscusso e onnipresente precetto capitalistico della “crescita”.
Precetto dalla grande maggioranza di fatto accettato, anzi “assimilato” senza discutere, forse senza nemmeno avere coscienza della sua rilevanza, e pertanto passivamente messo in opera, non di rado anche da parte di chi sarebbe professionalmente tenuto a criticarlo. Ricordo a questo proposito il grande e complesso edificio in cui, quattro anni fa, ebbe luogo il “summit” ambientale di Copenhagen: su tutte le pareti correvano scritte luminose, intese a testimoniare grande apprezzamento per le energie rinnovabili e l’”economia verde”; le quali venivano proposte in un entusiastico crescendo di slogan quali “green production”, “green market”, “green trade”, “green business”, “green affairs”, “green economy”, “green affluence“, “green growth”… Auspici di fatto lontanissimi da quella rimessa in causa dell’intero sistema economico dominante che, sola, potrebbe riportare in salute l’equilibrio ecologico del mondo; e di fronte ai quali il fior-fiore dell’ ambientalismo istituzionale del mondo, presente al convegno, non dava segni di avvertire contraddizione alcuna…
Di fatto ancora oggi questo accade, e sempre più diffusamente. Anche tra i tanti sinceramente volonterosi di salvare il mondo dal rischio ambientale, spesso (forse in un tentativo di autodifesa dalla tremenda magnitudine della questione) si verifica la tendenza a prestar fede a una delle tante terapie proposte, isolandola e magnificandola come “la soluzione”: e tra queste le energie rinnovabili, capaci (con insistenza si afferma) di alimentare l’attività di grandi industrie senza inquinare, o inquinando poco, si propongono come una soluzione oltremodo seducente.
Molti infatti se ne lasciano sedurre, e si entusiasmano dei risultati del loro lavoro, spesso però senza considerare che, certo, le energie rinnovabili (quale più, quale meno) sono in grado di alimentare anche potenti attività produttive senza inquinare, o inquinando limitatamente, l’ambiente circostante; e però hanno inquinato non poco, spesso anzi assai, nell’essere prodotte. Le pale dell’eolico, gli specchi del solare, le strutture di trasporto dell’energia prodotta, ecc., sono tutte cose che, prima di entrare in funzione, debbono essere fabbricate, trasportate, impiantate in un complesso “indotto”…, mediante tutta una serie di attività diverse, ognuna delle quali, inevitabilmente, poco o tanto ha inquinato… Di tutto ciò nessuno fa cenno. Eppure sono fatti che tutti conoscono, su cui sarebbe doveroso riflettere. Perché sempre, poco o tanto, “produrre inquina”: lo si leggeva qualche tempo fa anche su “La Repubblica”, in un articolo firmato da Paul Krugman, che non è un “verde”, ma un economista con tanto di Nobel.
Il fatto è che le battaglie meritoriamente portate avanti da tutti i “Verdi” (utilissime, anzi necessarie, anche quando si limitano alla difesa di un bosco o di un solo albero) per operare in modo davvero utile non dovrebbero perdere di vista il problema nella sua interezza; non dovrebbero cioè prescindere dal fatto che tutto quanto vediamo, tocchiamo, compriamo, usiamo nei modi più diversi (un abito, un mobile, un grattacielo, un’automobile, un cellulare, un computer, un’astronave…) tutto è “fatto” di natura, minerale, vegetale, animale: cioè di frammenti del pianeta Terra, su cui e di cui viviamo. D’altro non disponiamo.
Ma il pianeta Terra, per quanto grande, è una “quantità” data, non dilatabile secondo i nostri bisogni o sogni, e nemmeno secondo le regole dettate da un sistema economico, per quanto potente e - di fatto - indiscusso, come è oggi il capitalismo. La Terra non è pertanto in grado né di alimentare una crescita produttiva illimitata, quale ossessivamente l’economia persegue e invoca, né di neutralizzare i rifiuti - solidi, liquidi, gassosi - che poco o tanto da ogni produzione derivano. Sono cose che, certo, ogni ambientalista serio conosce, ma che non tutti sanno, e che anche non pochi ambientalisti di tutto rispetto sovente “rimuovono”, quando lavorano alla possibile soluzione di singoli problemi, di per sé estremamente complessi.
Questo d’altronde era il tema portante del primo libro ambientalista che ha fatto epoca a partire dai primi anni Settanta: “Limits to growth”, firmato dai coniugi Meadows dell’MIT, in Italia sponsorizzato e lanciato dal Club di Roma; opera centrata appunto su quella che dovrebbe essere una verità non solo indiscutibile ma ovvia (d’altronde affermata e gridata da tutti i “grandi” dell’ambientalismo, a partire da Georgescu Roegen) secondo cui i limiti quantitativi del pianeta Terra dovrebbero appunto indicare, e imporre, limiti precisi e non valicabili all’operare di ciascuno e dell’umanità tutta. Nell’edizione italiana il titolo è diventato “I limiti dello sviluppo”; e il dubbio che la modifica non sia stata casuale è inevitabile, se appena ci si volta indietro a ripensare questi ultimi quarant’anni.
Ora il libro verrà ristampato. Recuperarlo e leggerlo, per i giovani in vario modo impegnati nella difesa del pericolante equilibrio in cui viviamo, potrebbe essere il migliore ausilio per una corretta e completa lettura del problema, e per la messa a fuoco di una politica davvero utile.