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Gli assassini dello spazio pubblico
28 Luglio 2010
Spazio pubblico
Nella città simbolo degli interessi particolari, coerentemente abbandonato tutto ciò che non fa guadagnare. Desolante serie di articoli sul verde da la Repubblica ed. Milano, 28 luglio 2010 (f.b.)

Verde privato, verde pubblico

di Ivan Berni,

L’inizio di Via Washington offre lo spunto per una passeggiata istruttiva. Per una volta guardate per terra senza timore di incappare nei soliti souvenir del miglior amico dell’uomo: i larghi marciapiedi vi offrono piccoli tappeti erbosi perfettamente curati, sui quali spuntano ortensie o vasi di fiori.

Un cartello dà voce all’inconsueta presenza verde: «Per favore non calpestatemi! Sono un prato adottato dai cittadini che si stanno prendendo cura di me con entusiasmo. Gli amici cani non la devono fare qui! Grazie, vi offrirò magnifici fiori». Le aiuole parlanti si susseguono ordinate per un centinaio di metri, fino al civico 11. Poi il panorama torna il solito. Al posto dei praticelli, auto in sosta a spina di pesce. Spiazzi polverosi con qualche ciuffo d’erba agonizzante, sacchetti di plastica abbandonati e gli immancabili cumuli di mozziconi. Via Washington è una piccola metafora del tempo in cui viviamo e della pessima concezione dello spazio pubblico, e in fondo del bene comune, che anima chi governa questa città.

La nostra passeggiata racconta che lo spazio diventa realmente pubblico, fruibile, gradevole e curato soltanto quando viene "adottato" dai cittadini. Ovvero soltanto quando qualche "privato" decide di farsi carico di una missione pubblica. All’opposto, quando lo spazio pubblico rimane orfano – ovvero quando resta soltanto nelle cure del Comune, che si chiama così perché la sua missione è occuparsi delle cose di tutti – imperano trascuratezza e degrado. Lo sporco attira sporco. La sciatteria alimenta il disinteresse. Ciò che è pubblico non diventa mai spazio o opportunità per tutti: rimane figlio di nessuno.

Quel che è accaduto in via Washington misura la distanza siderale degli occupanti di Palazzo Marino dal "sentimento" con cui i cittadini vivono la loro città, ma al tempo stesso lancia un importante messaggio a chi spera che le prossime elezioni segnino una decisa inversione di tendenza. Chi vuol prendersi l’onore e l’onere di governare Milano deve fare i conti con una città che vuole tornare a essere ascoltata, che chiede partecipazione e cura. Che domanda ai suoi amministratori un progetto e una visione ma soprattutto la capacità di stare in sintonia col territorio, di intervenire sulle decine di piccoli problemi e trascuratezze che fanno sentire il milanese stanco e disilluso appena mette il naso fuori casa. Quelli di via Washington non si sono chiesti, prima di zappettare e seminare, se il loro sforzo sarebbe risultato patetico o inutile.

L’hanno fatto e hanno mostrato quanto patetica, e dannosa, sia invece una concezione di "bene pubblico" che ha dimenticato il significato della parola civismo e che per recuperare consenso e popolarità non esita a seminare paura e ansie securitarie. Lasciando ai cittadini la convinzione che chi occupa gli scranni del governo lo faccia per coltivare ambizioni e affari propri. E infine la convinzione che il fai da te sia l’unico modo per mostrare che il civismo è ancora vivo e praticabile. Nonostante l’amministrazione civica.

Monte Stella, paesaggio lunare svettano solo i tubi di plastica

di Ilaria Carra

Erba incolta e arida, qualche rifiuto, siccità. Aria da deserto, tutto intorno. C’è un tubo di plexiglas, lo shelter, a imprigionare le piantine. Uno per ognuna, bianco e alto 1,20 metri, o basso e verde, a seconda dell’essenza. Sono migliaia, arrivati nel quartiere tra marzo e aprile, davanti al Monte Stella, a ridosso del Palasharp, dietro al QT8: ontani, ciliegi, querce, noccioli. Piantati fitti fitti, in fila, su quattro collinette. Tutti mini, messi giù giovani. A guardarci dentro a quelle canne di protezione, in almeno la metà si trovano solo ramoscelli rinsecchiti e foglie marrone bruciato. Quattro collinette e un piccolo parco piatto davanti all’istituto delle Suore della Riparazione di via Salerio: cinque cimiteri.

Dopo le centinaia di piante già scheletri a quattro mesi dalla messa a dimora, in zona 7 alle spalle di San Siro, ecco un altro esempio di una buona iniziativa che finisce nel degrado. Eppure questo, tra le vie Benedetto Croce e Sant’Elia, è uno dei boschetti tematici inaugurati a giugno dal sindaco Moratti. "Di benvenuto", li hanno chiamati: un tocco verde per accogliere chi arriva o lascia la città: viale Suzzani, Cascina Gobba, via Pertini, alberi sparsi in zone di frontiera, alle porte di Milano.

La collinetta che se la passa peggio è quella che s’affaccia su via Benedetto Croce, compresa in un giardino più grande di recente creazione intitolato alla memoria dei caduti di Nassiriya. Un parco metà comunale (la zona tenuta meglio, dall’Amsa) e metà regionale (cestini strabordante e sporcizia ovunque). Le piante secche sulla collinetta sono più della metà. Proseguendo lungo via Croce si arriva a un poggio un poco più ampio sul quale le nuove piantumazioni sono state almeno 2.000. Lo spruzzino dall’alto gira lento e bagna, ma evidentemente non basta se il risultato sono arbusti e piantine scheletriche. In zona del progetto non sapevano nulla: «Ce le siamo ritrovati all’improvviso - denuncia Angelo Dani, consigliere Pd in zona 8 - E un paio di settimane fa abbiamo ricevuto un gruppo di residenti infuriati e delusi perché quelle nuove piante sono già tutte morte. Una vergogna».

Ci risiamo. Nuovo verde che arriva, poche cure, piante secche che se non si riprenderanno da sole sono condannate. Accade anche al miniparco in piano: «Erano delle dune così belle, bastava curare il prato - ricorda una suora che vive lì di fronte - invece ogni anno mettono giù nuove piante che poi non resistono. Per fortuna sono venuti almeno a tagliare l’erba settimana scorsa: sembrava una giungla e qui avevamo paura delle bisce. Ma sono venuti solo perché ha preso fuoco un pezzo di parco, c’è stato un incendio. Se no di gente qui a lavorare ne vediamo di rado». Non va meglio in via dei Missaglia, al quartiere Terrazze: qui le nuove piante a fusto già alto sono un’ottantina e, percorrendo la strada, si nota come la metà sia già color terra bruciata. «Più acqua», è la cura banale suggerita da qualche residente che passa e allarga le braccia.

Se in via dei Missaglia è il consorzio Coges che dovrebbe pensarci, il nuovo verde davanti alla Montagnetta dei milanesi è in carico all’Ersaf, l’Ente regionale per i servizi all’agricoltura e alle foreste, che, secondo una convenzione con Palazzo Marino, ha realizzato, appunto, i boschetti "di benvenuto". E per il primo anno deve occuparsi anche della manutenzione, di queste piantine che vengono dal vivaio certificato di Curno: tutti semi prodotti dalle foreste lombarde. Poi si vedrà. Spiega il direttore di Ersaf, Sauro Coffani: «È stata una stagione tremenda, è piovuto poco: c’è criticità ma è nella norma, siamo al 10 per cento di morìa stando ai nostri tecnici. Spesso se ne piantano di più perché si va per diradamento naturale, anche la metà a volte. Gli impianti d’irrigazione vanno giorno e notte. Le piantine che dovessero morire entro l’anno saranno sostituite».

Gli alberi di Abbado uccisi dalla fretta

di Anna Cirillo

Chi vorrebbe nel proprio giardino una pianta che muore? Eppure questo è lo spettacolo che si presenta a Milano, dove molti dei giovani alberi piantumati in primavera sono in vera sofferenza, in parte già estinti. E anche se, come dice l’assessore al Verde Maurizio Cadeo, «il monitoraggio del Comune sulle piante è quotidiano, la moria fisiologica che abbiamo constatato è al 6 per cento, quando il limite fissato dalla facoltà di Agraria è dell’8», alla Coges, il Consorzio gestione servizi che si occupa del verde urbano, qualcuno non la pensa così. Quelle piante, messe a dimora in fretta e furia - decisione a febbraio e piantumazione a marzo - per dare una prima risposta al maestro Abbado (i famosi 90 mila alberi chiesti per tornare alla Scala) «sarebbe stato meglio piantarle in autunno. Poi gli alberi vanno in letargo, così possono preparasi meglio alla successiva primavera» dice un agronomo del consorzio che lavora da una vita nel settore. Invece, senza impianto di irrigazione e bagnati a mano, molti di questi alberi non hanno resistito all’estate particolarmente torrida e sono sotto forte stress. Anche perché l’autobotte per l’irrigazione a mano costa 800 euro al giorno, una bella botta.

La Coges, contratto con il Comune scaduto a giugno e prorogato fino a fine anno, è un consorzio di cui fanno parte sei ditte (Gaslini e Baronchelli di Milano, Rappo di Cusago, Premav, Santamaria e Malegori di Monza) che ha diviso la città in zone. Ogni ditta ha la sua: chi piantuma deve poi seguire le piante e abbeverarle. Ma è il consorzio che risponde al Comune e paga una penale se la moria è superiore al 10 per cento. E che deve, per contratto, sostituire la pianta che non ce la fa, senza chiedere altri soldi all’amministrazione. La piantumazione non è, però, esclusivo appannaggio del consorzio: la fanno, per esempio, anche le imprese che costruiscono case o box, e pagano con una parte di verde gli oneri di urbanizzazione, oppure l’Ersaf, l’Ente regionale per i servizi alla agricoltura e alle foreste, responsabile dell’impianto disastrato a Monte Stella.

L’assessore Cadeo difende il lavoro fatto puntualizzando che «la piantumazione è stata fatta da novembre a marzo, stagione agronomicamente corretta». Ma più di 5mila alberi, per esempio in zona 7, sono stati messi a dimora a marzo e tra questi molte le querce (quercus rubra) che, dice sempre l’esperto del consorzio, «non sono più adatte al clima ormai troppo caldo di Milano. Infatti sono quelle che muoiono». Per quel che riguarda gli impianti di irrigazione «li facciamo dove è possibile, altrimenti i costi sarebbero insopportabili - conclude Cadeo - . E comunque i conti si faranno a fine stagione. Vedremo quante piante andranno sostituite». «Il verde in città non dovrebbe essere una operazione di marketing e pubblicità - commenta invece Maurizio Baruffi, consigliere comunale del Pd - . Noi più volte abbiamo chiesto che ci venisse fornito un resoconto chiaro delle operazioni in campo. Mai avuto risposte. L’impressione è che ci si muova in maniera confusa e casuale. Sulle piantumazioni ci vuole una nuova attenzione, che sfugga al dibattito quantitativo su quanti alberi si piantano e punti, invece, alle condizioni necessarie per farli vivere meglio».

E nemmeno la città di pietra se la passa bene, come ci ha ricordato Vittorio Gregotti

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