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Pierluigi Panza
Gli architetti italiani vogliono protezione
22 Maggio 2006
Articoli del 2005
Una singolare protesta. Qualche contraddizione tra international style e provincialismo in una richiesta d’assistenzialismo culturale. Che c’entrano i poveri sovraintendenti? Gregotti prende le distanze. Da il Corriere della sera del 7 e 8 settembre 2005

Architetti in rivolta: invasi da progetti stranieri

7 settembre 2005

Un tempo, con Palladio, l'Italia esportava la propria architettura in tutto il mondo senza importarne alcuna. Il suo trattato, «I Quattro libri dell'Architettura» (1570), fu il primo bestseller del genere e diventò una «Bibbia» da seguire per tutti i costruttori anglosassoni; tanto che il palladianesimo è ancora diffuso a Beverly Hills.

Oggi, le maggiori commesse del Belpaese stanno invece andando a «archistar» internazionali. Proprio ieri, la Giunta di Milano ha approvato il Programma per la riqualificazione della Fiera di Daniel Libeskind, Zaha Hadid e Arata Isozaki, un progetto che la Fondazione Fiera esporrà a fine settembre a Buenos Aires come «simbolo» della nuova Italia. Poi ci sono i progetti contestati: pensilina degli Uffizi di Isozaki, nuova Ara Pacis di Richard Meier e ponte di Venezia di Santiago Calatrava. Quindi il Museo di Roma della Hadid e, a Milano, Santa Giulia di Norman Foster, la Città della Moda di Cesar Pelli e il Palazzo della Regione di I.M.Pei. Di fronte a tanta «invasione straniera», al «pericolo» di un «meticciato architettonico» è l'ora di una levata di scudi in difesa del «patrio suol»?

Parrebbe di sì, poiché — dopo anni in cui ci si è lamentati dell'assenza di architetti stranieri — l'attuale situazione ha indotto un gruppo di prestigiose firme di casa nostra a scendere in campo in difesa della «irrinunciabile risorsa culturale italiana, che non può essere ulteriormente vanificata e ignorata ». Tra i primi firmatari di questo appello — inviato ai presidenti della Repubblica, del Consiglio, di Camera e Senato — figurano Vittorio Gregotti, Guido Canella, Antonio Monestiroli, Franco Purini, Aimaro Isola, Ettore Sottsass, Cesare Stevan e Paolo Portoghesi. Il quale, a dire il vero, nel 1980 organizzò una Biennale Postmodern che rompeva stilisticamente proprio con quella tradizione dei Terragni, Libera e Ridolfi che ora si vuol difendere.

L'«Appello per lo sviluppo in Italia della nuova architettura», parla di situazione «drammatica» e individua come una delle cause il ricorso agli stranieri che, a differenza degli italiani, hanno potuto realizzare «grandi opere di interesse sociale» nei loro Paesi, mettendosi in buona luce. Al contrario l'Italia ha accumulato ritardi privando i nostri architetti di analoghe «occasioni di lavoro».

L' appello ritiene maggiormente responsabili di questo «stato dell'arte» — che non considera il fatto che gli stranieri sono stati vincitori di concorso e che agli italiani non era vietato costruire all'estero — le sovrintendenze. Per questo l'appello chiede di «mettere fine al diritto di veto» dei sovrintendenti «per limitarne il potere totalmente autonomo… che ha privato l'Italia di molte opere significative rimaste sulla carta» (ma anche salvato centri storici, no?) per affidarlo a una commissione più pluralista da insediarsi al ministero presso il Darc, la Direzione architettura. In questo modo si sostituirebbe il controllo periferico sul territorio «totalmente autonomo» delle sovrintendenze (una forma di federalismo) con un centralismo pluralistico.

Per l'architetto italo-svizzero Mario Botta, l'appello è condivisibile. «Rafforzare la Direzione Architettura sarebbe un passo avanti. Credo ci sia un po' di risentimento legittimo da parte degli italiani perché chi viene da fuori ha un portfolio ampio; basta che ciò non si trasformi sciovinismo». Botta condivide anche la critica alle sovrintendenze: «Il loro strapotere va limitato, perché intervenire con un veto quando si vuole è un lusso che nessun Paese può permettersi. La figura del sovrintendente è un po' arcaica, borbonica, va riformata se crediamo che il progetto sia ciò che trasforma la città».

Dante O. Benini, progettista della cosiddetta nuova Torre di Pisa, è «d'accordo sui cinquant'anni di immobilismo del nostro Paese» ma non condivide l'idea che gli italiani siano discriminati: «Vince chi presenta la miglior opera. Per la chiesa del nuovo millennio, in finale c'erano cinque ebrei: che vuol dire? Dovevano essere cattolici? Io sto lavorando a Istanbul e non sono musulmano!». Sulle sovrintendenze condivide la critica: «Ricordiamoci che vietarono un progetto di Frank Lloyd Wright. Lo snellimento dell'apparato burocratico è indispensabile. Il diritto di veto a posteriori è un anacronismo: la soprintendenza faccia parte delle commissioni di approvazione».

«Basta con gli stranieri», architetti divisi

8 settembre 2005

Fuksas: utile la sfida globale. Bellini: appello fuori tempo. Gregotti: no, siamo invasi Scusi, Fuksas, ha letto l'appello dei suoi colleghi ai presidenti Ciampi e Berlusconi in «difesa della tradizione architettonica italiana»? «Sa, sono a Parigi a presentare un mio progetto per i nuovi archivi della cultura nazionale. L'ho letto. Ma lei ha considerato l'età media dei firmatari? Il più giovane avrà sessant'anni»! Cioè? «Oggi guardiamo film francesi, mangiamo giapponese e compriamo prodotti cinesi, non capisco perché l'architettura dovrebbe rimanere della tradizione italiana. E quale tradizione, poi? È ora che anche l'architettura entri nell'età della globalizzazione. Il mondo è uno. A Vienna ho costruito due grattacieli: non mi hanno detto "torna indietro italiano!"».

Già, locali o globali nell'arte? Bisogna difendere una «tradizione», come invocano, con Portoghesi, i firmatari dell'appello, o lasciare che ogni internazionalismo venga a noi? «L'appello doveva essere contro i condoni e l'abusivismo — continua Massimiliano Fuksas —. L'apertura alla competizione con gli stranieri fa bene. Ci vuole meno burocrazia, non più».

La difesa dell'appello è affidata a Vittorio Gregotti, che si aggiunge al richiamo di Mario Botta, che ha parlato di «risentimento legittimo» da parte degli italiani. «L'internazionalismo critico, che è uno dei fondamenti del progetto moderno, è qualcosa di assai diverso dall'ideologia del globalismo dei mercati e delle tecniche, delle inutili bizzarrie e della riduzione dell'architettura ad immagine». Ma Gregotti prende le distanze rispetto a un aspetto: «Credo che sia un errore individuare nelle sovrintendenze l'ostacolo ad uno sviluppo italiano dell'architettura. Dovremmo chiedere che esse siano meglio dotate di strumenti e di mezzi, che il loro personale sia meno burocratizzato e culturalmente più qualificato. Chi deve essere messo sotto accusa per la "invasione dello straniero", che io straniero non considero, è la struttura dei concorsi ed il basso livello culturale di molte amministrazioni pubbliche. Anch'esse hanno qualche scusante. Premiare uno straniero significa per loro accodarsi alla falsa idea che la qualità dell'architettura sia un problema di marketing e che quindi convenga premiare architetti che sono internazionalmente alla moda. E qui si inseriscono anche le responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa e della loro fissazione per la presunta novità anziché per il giudizio».

Più che la difesa della tradizione italiana invocata nell'appello, si scopre allora che il problema è quello di difendere la qualità (ma di tutti). «La difesa dell'italianità è fuori tempo — afferma Mario Bellini —. Poiché mi sento ben accettato quando progetto a Parigi o a Melbourne sono tollerante quando vengono gli altri e non mi sento invaso. Ora aspetto l'arrivo dei cinesi. Certo, le procedure delle sovrintendenze vanno riformate, ma non cancellate, e i concorsi devono essere più qualificati: meno partecipanti e rimborsi più alti, come in Francia. È vero che c'è la tentazione in alcuni di portare il grande nome straniero, ma così come ci sono gli accademici che chiamano il loro amico».

L'immobiliarista Luigi Zunino, presidente di Risanamento, punta al sodo della questione: «Ho affidato a lord Norman Foster il progetto Santa Giulia a Milano, e all'italiano Renzo Piano quella degli ex stabilimenti Falck di Sesto San Giovanni. Il criterio è uno solo: scegliere il meglio. E quando l'obiettivo è questo non si guarda al passaporto».

Una lettura cultural-politica è quella del filosofo e assessore alla Cultura a Milano, Stefano Zecchi. «La verità è che la pietra dello scandalo è Milano, che ha saputo rompere con la vecchia tradizione architettonica da salotto chic della sinistra e aprire alle grandi firme straniere. Nel rispetto della qualità, della preesistenza storica, ma non nella difesa di lobby artistiche-architettoniche».

Chiamato in ballo dall'appello poiché responsabile della direzione Architettura del ministero a Roma, alla quale i firmatari vorrebbero dare maggiori poteri per tutelare la qualità della nostra architettura, Pio Baldi risponde lusingato: «I firmatari hanno delle ragioni, perché siamo al provincialismo alla rovescia. L'Italia ha un tessuto storico tale che ha bisogno di interventi solo Scarpa o alla Ridolfi; spesso questi architetti internazionali non hanno la sensibilità adatta per operare da noi».

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