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Edoardo Salzano
Gli anni 70. Tra riforma e controriforma
4 Gennaio 2008
Segnalazioni e recensioni
La discussione in corso sugli anni 70 (come furono? tragedia? Eldorado?) mi sollecita a pubblicare il capitolo dedicato a quel periodo nel mio libro Fondamenti di urbanistica, Laterza, Roma-Bari 2003 (V ed.)

Un decennio contraddittorio

Riprendiamo dall’analisi delle trasformazioni avvenute nel periodo che comprende i decenni Cinquanta e Sessanta e dagli avvenimenti che ne scaturiscono, il cui svolgimento contrassegnerà contraddittoriamente l’intero corso degli anni Settanta. Sono anni che si aprono con le grandi e innovative tensioni del Sessantotto studentesco e operaio, si sviluppano, attraverso una serie di crisi politiche e di attentati dinamitardi, attorno ai temi dell’intervento pubblico nel settore della casa, degli espropri, dell’attuazione dell’ordinamento regionale, dei tentativi di programmazione economica.

Il quadro istituzionale dell’urbanistica cambia considerevolmente. La drammaticità degli scontri sociali sulle questioni del territorio e della città sembrano ridare fiato alla riforma urbanistica. La politica della casa entra a far parte dell’armamentario della pianificazione. L’istituzione delle regioni introduce un soggetto pubblico potenzialmente decisivo. Sebbene non si raggiunga una vera riforma del regime dei suoli, vengono introdotte alcune significative innovazioni, in parte vanificate dalla sentenze della Corte costituzionale.

Mentre da un lato sembra procedere, attraverso tappe parziali, un disegno di riforma, dall’altro lato si mettono in moto forze controriformatrici, le quali agiscono a volte con gli attentati terroristici, a volte con sottili tattiche di svuotamento delle leggi innovative.

Squilibri territoriali e politica edilizia

Ricorda De Lucia che “in un decennio (1961-1971) gli abitanti del Mezzogiorno si sono ridotti dal 36,7% al 34,8% della popolazione nazionale, con un decremento più veloce che nel recedente periodo intercensuario” [i].

In realtà, nel decennio sono nate nelle regioni del Sud circa 2 milioni e mezzo di persone, ma oltre 2 milioni e 300 mila sono state costrette ad emigrare. L’occupazione, dal 1961 al 1971, è aumentata del 21% nel Mezzogiorno e del 79% nel resto del paese. Su 2 mila e 500 comuni meridionali, quasi 2 mila sono quelli dove si registra una diminuzione della popolazione in valore assoluto. I 4/5 del territorio meridionale sono in via di abbandono e di disgregazione, è in disfacimento l’agricoltura collinare e montana, aumentano vertiginosamente frane e dissesti.

“Nei quindici anni che vanno dal 1955 al 1970 cambiano residenza 17 milioni di italiani. Gli spostamenti avvengono prevalentemente: dal Mezzogiorno verso il triangolo Milano, Torino, Genova; dalle zone interne verso la fascia costiera; dai centri minori verso le città più grandi. Lo sviluppo dei fenomeni migratori è assolutamente “spontaneo” e contrasta vistosamente con gli obiettivi osti dai tentativi di programmazione economica che si susseguono e che socialmente la componente riformista del centrosinistra cerca di difendere, puntigliosamente, nonostante le continue delusioni. Intanto, l’intervento statale di gran lunga prevalente, specialmente nel Mezzogiorno, continua ad essere la costruzione delle strade e, soprattutto, delle autostrade [ii].

Del resto, l’impegno dello Stato è stato gigantesco”

“Dal 1960 si sono avute in Italia costruzioni per una media di 208 km annui contro i 170 della Germania e 127 della Francia. Di conseguenza gli investimenti a favore dei trasporti collettivi su rotaie sono rimasti strozzati dall’impegno autostradale, che di fatto risultava uno stimolo diretto a sostenere e rafforzare l’industria automobilistica e quelle consorelle” [iii].

Paradossale è il tentativo di programmare la politica abitativa. Lo “Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-1964” (il cosiddetto “schema Vanoni”, primo tentativo di programmazione economica) poneva come obiettivo per risolvere il problema della casa quello di realizzare 13 milioni di vani nel decennio considerato. L’obiettivo fu ampiamente superato: dal 1955 al 1964 si costruirono in Italia oltre 19 milioni di vani. Il problema della casa avrebbe dovuto considerarsi risolto. Invece, nello stesso anno 1964, il “progetto di programma di sviluppo economico” per il quinquennio 1965-1969 predisposto dal ministro per il bilancio Antonio Giolitti prevede un “fabbisogno ottimale di abitazioni” corrispondente addirittura a 20 milioni di stanze!

“Eppure, più case si fanno più ce ne vogliono: è questo il paradosso della situazione italiana. In effetti le case ci sarebbero per tutti, come confermano i dati del censimento. Nel 1971 ci sono in Italia 54 milioni di abitanti ed oltre 63 milioni di stanze. Nel decennio 1961-1971 la popolazione è cresciuta del 6,7% ed il patrimonio edilizio del 33,8%. L’indice di affollamento medio nazionale è di 0,85 abitanti/stanza. Ma è un indice teorico perché quasi un quarto del patrimonio esistente è inoccupato o sottutilizzato. Le case ci sarebbero per tutti, solo che costano troppo, oppure sono lontane da dove ormai è costretta a vivere la maggioranza degli abitanti, oppure sono seconde o terze case. Questi dati, dapprima elaborati e discussi in ristretti ambienti specialistici, diventano gli argomenti e slogan della contestazione sindacale ed operaia. Sotto accusa è il “modello di sviluppo” basato sull’esaltazione degli squilibri. Il problema della casa, irrisolvibile fino a quando continueranno poderosi flussi migratori, è all’origine dell’autunno caldo” [iv].

Le lotte per la casa e l’autunno caldo

Nel marzo 1969 la Fiat pubblica un bando per assumere negli stabilimenti di Torino 15 mila nuovi addetti, reclutandoli nel Mezzogiorno 15 mila addetti: con le loro famiglie, 60 mila nuovi immigrati a Torino. Le organizzazioni sindacali rilevano subito che i programmi di espansione degli impianti e dell’occupazione della Fiat aggraverebbero la tendenza in atto alla emarginazione delle regioni meridionali. Nell’area torinese si manifesta una decisa opposizione contro ogni indiscriminato aumento della popolazione che farebbe saltare le già precarie strutture residenziali, e quel po’ di attrezzature sociali funzionanti nei comuni della cintura. La protesta sbocca nello sciopero generale provinciale del 3 luglio 1969 “contro il caro-casa e per un massiccio e tempestivo intervento dello Stato nell’edilizia”. I fatti di Torino, gli altri scioperi generali in numerose province nei mesi successivi, le proteste dei baraccati, il ripetersi delle occupazioni di alloggi pongono in primo piano la necessità di una nuova politica della casa. Ed è proprio con la vertenza nazionale per la casa e per una nuova politica urbanistica che le centrali sindacali avviano l’autunno caldo del 1969.

Le confederazioni Cgil, Cisl e Uil aprono la vertenza per la casa, i servizi, i trasporti, il superamento degli squilibri territoriali. Secondo i sindacati, i nuovi interventi di edilizia pubblica vanno realizzati nell’ambito di una nuova legislazione urbanistica che deve regolare il regime delle aree urbane attraverso il diritto di superficie e l’esproprio generalizzato. Anche per le Acli condizione principale per rendere possibile un mercato della casa alla portata di tutti è la pubblicizzazione dei suoli, l’abolizione dell’attuale regime, l’esproprio generalizzato e la definizione del diritto di superficie. Si estende il dibattito, fioriscono le proposte. La questione approda al Parlamento.

“Si arriva cosi al momento culminante della mobilitazione: il grande sciopero nazionale del 19 novembre 1969, indetto dalle tre confederazioni sindacali nonostante i ripetuti tentativi del governo per evitarlo. Si ferma l’intero paese, è una delle più forti manifestazioni popolari dell’Italia contemporanea. Prima conseguenza è la decisione governativa di accantonare due disegni di legge, frettolosamente predisposti dai ministri Natali e Carlo Donat Cattin, evidentemente inadeguati rispetto alle rivendicazioni. L’indiscutibile successo dello sciopero contribuisce certo ad accelerare le manovre dei poteri più o meno occulti che governano la strategia della tensione. E infatti le bombe di Milano e Roma del 12 dicembre distraggono l’opinione pubblica dal problema della casa, ma solo per qualche settimana. I primi mesi del 1970 sono di nuovo punteggiati da numerosi dibattiti ed i sindacati riprendono l’iniziativa politica”[v].

Nel marzo 1971 il ministro dei lavori pubblici Lauricella presenta alla Camera il disegno di legge n. 3199 contenente “Norme sull’espropriazione per pubblica utilità, modifiche ed integrazioni alla legge 18 aprile 1962, n. 167, ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata”. La riforma urbanistica è invece rinviata sine die. Si avviano l’esame del disegno di legge e le consultazioni con i rappresentanti delle organizzazioni sindacali, degli imprenditori, degli inquilini, delle associazioni comunque interessate al problema, e con le neonate amministrazioni regionali (le prime elezioni regionali si erano svolte il 7 giugno 1970).

La legge per la casa del 1971

Il dibattito parlamentare si conclude con la definitiva approvazione della legge il 22 ottobre 1971. La legge 865/1971 affronta organicamente e compiutamente i nodi del problema della casa in Italia.

Il primo titolo riguarda la programmazione e il coordinamento dell’intervento pubblico. Spetta alle regioni la localizzazione ed il coordinamento degli investimenti pubblici per l’edilizia stabiliti dal governo sulla base di un “piano di attribuzione” redatto in funzione dei fabbisogni regionali e alimentato da tutte le risorse pubbliche nazionali destinate al settore.

Il secondo titolo riguarda l’espropriazione per pubblica utilità. Il campo di applicazione comprende gli immobili (aree ed edifici) necessari: per gli interventi previsti dalla stessa legge n. 865; per i piani di zona della legge n. 167; per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, compresi i parchi pubblici; per le singole opere pubbliche; per il risanamento, anche conservativo, degli agglomerati urbani; per la ricostruzione di edifici o quartieri distrutti o danneggiati da eventi bellici o da calamità naturali; per l’attuazione di zone di espansione urbana, a norma dell’articolo 18 della legge urbanistica del 1942; per la formazione di parchi nazionali; per le zone che gli strumenti urbanistici destinano ad impianti industriali, artigianali, commerciali e turistici. Le aree espropriate sono assegnate in concessione (per periodi rinnovabili da 60 a 99 anni) oppure in proprietà.

La legge non riconosce, nell’indennità espropriativa, il maggiore valore acquisito dall’area per effetto dell’opera che vi si dovrà insediare o della destinazione d’uso stabilita dal piano regolatore. La rendita di posizione è solo in parte riconosciuta con il ricorso a parametri che moltiplicano il valore agricolo iniziale in funzione della ubicazione (più o meno centrale) del bene da espropriare e della dimensione demografica dei comuni.

Il terzo titolo della legge riguarda le modifiche alla legge 167/1962 e raccoglie i perfezionamenti richiesti da quasi un decennio di esperienza in materia di piani di zona. Si stabilisce in particolare che l’estensione delle aree destinate all’edilizia economica e popolare non può superare il 60% del fabbisogno complessivo di edilizia abitativa prevista per un decennio. Viene disposta l’abrogazione dell’articolo 16 della originaria legge 167/1962, che consentiva ai proprietari di aree ricadenti nei piani di zona di intervenire direttamente. Come osserva De Lucia,

“in tal modo, la legge per la casa, imponendo ai comuni di acquisire le aree e di assegnarle agli enti ed ai costruttori privati che si impegnano a realizzare abitazioni economiche e popolari nel rispetto di determinati vincoli, rappresenta un risoluto passo avanti nel controllo dei meccanismi di formazione della rendita fondiaria. In sostanza, per la prima volta, viene affermata una netta separazione fra proprietà fondiaria e attività costruttiva, traducendo in termini concreti il principio dell’indifferenza dei proprietari alle destinazioni del piano” [vi].

Il quarto ed il quinto titolo della legge riguardano aspetti finanziari dell’intervento pubblico in edilizia e tradizionali agevolazioni per l’edilizia privata. Si tratta di norme dichiaratamente transitorie, in attesa di quella organica legge di spesa per l’edilizia residenziale, che sarà approvata dopo sette anni (il cosiddetto “piano decennale” del luglio 1978).

Speranze, tentativi e crisidelle programmazione economica

Nella storia dei tentativi di programmare lo sviluppo dell’economia per evitare i danni e le strozzature un posto di rilievo spetta alla “Nota aggiuntiva” alla relazione annuale di contabilità economica nazionale, presentata nel maggio 1962 dal ministro repubblicano Ugo La Malfa. La “Nota aggiuntiva” traccia un lucido consuntivo dei caratteri salienti del processo di sviluppo degli anni Cinquanta. Segnala il persistente scompenso fra le regioni nordoccidentali ed il resto del paese, ed i disordinati fenomeni di migrazione interna con la conseguenza della congestione di alcune aree e dello spopolamento di altre. Di squilibri territoriali si parla in termini approfonditi, ma le analisi e gli obiettivi della politica economica continuano ad essere esposti in una forma aggregata: ciò non consente di dedurre dalle scelte di sviluppo produttivo concrete indicazioni di assetto del territorio. Nel 1964, il vicepresidente della Commissione nazionale per la programmazione economica, Pasquale Saraceno, presenta il Rapporto 4 che costituisce la base del programma economico nazionale. La volontà meridionalistica obbliga a collocare il riequilibro del territorio al primo posto fra gli obiettivi dell’intervento pubblico.

Analoghe indicazioni sono contenute nel Progetto di programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1969 presentato dal ministro per il bilancio Antonio Giolitti nel giugno 1964, e ripresentato con alcune modifiche nel gennaio successivo dal nuovo ministro Luigi Pieraccini. L’assetto del territorio rimane tuttavia un capitolo del documento e, anche per la fiducia riposta nelle procedure e nei contenuti innovativi della nuova legge urbanistica (la cui approvazione è data per certa ed immediata), non diventa una “dimensione” della politica di programmazione.

Nel 1967 viene finalmente approvato con legge il Programma di sviluppo economico per il quinquennio 1966-1970. E il primo ed unico documento di programmazione economica nazionale sancito in un atto ufficiale. In verità, sui temi della programmazione economica, presso il ministero del bilancio, operarono in quegli anni alcuni dei più coerenti sostenitori della politica di riforma (primi Antonio Giolitti e Giorgio Ruffolo). Anche in materia di assetto del territorio furono prodotti ipotesi e ragionamenti spesso di notevole impegno intellettuale. L’organizzazione territoriale, assente nei primi documenti, diventa via via parte essenziale della logica di programmazione. Ma dopo la crisi economica del 1973 i riferimenti alla politica territoriale si affievoliscono di nuovo, e poi scompaiono del tutto.

Una compiuta integrazione dell’assetto del territorio nella strategia della programmazione viene proposta nel Rapporto preliminare al programma economico nazionale 1971-1975, più noto come “Progetto ‘80” [vii]. Il superamento degli squilibri non è più affrontato in termini esclusivamente economici, ma in una prospettiva dinamica di cui si prefigurano le conseguenze territoriali. Viene proposto [viii] un modello di assetto (un vero e proprio schema di “piano territoriale nazionale”), fondato sull’individuazione di “sistemi di città” potenzialmente alternativi rispetto alle agglomerazioni urbane esistenti ed alle loro degenerazioni “spontanee”. La politica di riequilibrio territoriale non è proposta solo alla scala delle grandi ripartizioni geografiche ma anche ai livelli locali.

Dopo continui slittamenti, la programmazione economica scompare infine dalle azioni di governo. La crisi economica fa scattare il “ricatto della congiuntura”: la logica di piano viene presentata come un lusso che non ci si può consentire quando urgono problemi di sopravvivenza economica. I nuovi documenti programmatici tornano cosi ad occuparsi esclusivamente dei grandi aggregati economici e delle loro compatibilità.

L’attuazione delle regioni a statuto ordinario

La Costituzione della Repubblica italiana era stata approvata il 27 dicembre 1947, e promulgata il 1° gennaio successivo. Essa prevedeva l’istituzione delle regioni come “enti autonomi con propri poteri e funzioni” (articolo 115), e attribuiva loro rilevanti competenze. Tra queste, la potestà legislativa in materia urbanistica (articolo 117). Alla vigilia degli anni Settanta l’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione non era ancora stato attuato: erano state istituite solo, in ragione di diverse contingenze e opportunità politiche, le cinque regioni “a statuto speciale”: la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta e il Trentino-Alto Adige (poi disaggregata nelle due province di Trento e Bolzano) nel 1948, e il Friuli-Venezia Giulia nel 1963. La causa principale della mancata attuazione del dettato costituzionale su questo punto così rilevante per il funzionamento dell’ordinamento dello Stato era certamente costituito da una preoccupazione politica della DC e dei suoi alleati: si temeva del ruolo che avrebbero svolto i comunisti e i loro alleati socialisti, allora all’opposizione e considerati come “nemici” dall’intero schieramento internazionale cui l’Italia apparteneva, che avevano la maggioranza elettorale nelle tre regioni centrali (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria) e forse anche nella Liguria. Uno degli obiettivi della politica riformatrice degli anni Sessanta era quindi l’attuazione della norma costituzionale relativa alle regioni a statuto ordinario. Delle regioni si parlava del resto nelle proposte di legge di riforma urbanistica dei primi anni Sessanta.

I quindici consigli regionali a statuto ordinario sono eletti per la prima volta nella primavera del 1970, ma l’effettivo trasferimento dei poteri avviene nel febbraio del 1972, in base a decreti del Presidente della repubblica. Per quanto riguarda l’urbanistica, accanto al potere di legiferare già attribuito dalla Costituzione, alle regioni vengono trasferite tutte le funzioni amministrative che la legge del 1942, e le successive leggi di modifica e di integrazione, affidavano agli organi centrali e periferici del Ministero dei lavori pubblici: l’approvazione degli strumenti urbanistici (piani territoriali di coordinamento, piani regolatori generali comunali e intercomunali, piani di ricostruzione, regolamenti edilizi e programmi di fabbricazione, piani particolareggiati e lottizzazioni convenzionate) e dei piani per l’edilizia economica e popolare; il controllo e la vigilanza sull’attività edilizia ed urbanistica degli enti locali. Alle regioni a statuto ordinario viene anche trasferito il potere di redigere e di approvare i piani territoriali paesistici previsti dalla legge per la tutela delle bellezze naturali del 1939.

Agli organi centrali dello Stato è riservata la funzione di “indirizzo e coordinamento” delle attività amministrative regionali “che attengono ad esigenze di carattere unitario, anche con riferimento agli obiettivi del programma economico nazionale ed agli impegni derivanti dagli obblighi internazionali”. Allo Stato sono riservate inoltre le competenze relative alla rete autostradale; alle costruzioni ferroviarie, ai porti, alle opere idrauliche e di navigazione interna di maggiore importanza; all’edilizia statale, demaniale e universitaria, ecc.

Al trasferimento delle materie stabilite dall’articolo 117 della Costituzione si affianca la delega delle “funzioni amministrative necessarie per rendere possibile l’esercizio organico da parte delle regioni delle funzioni trasferite o già delegate”. Viene istituita una commissione (presieduta da Massimo Severo Giannini) le cui proposte forniscono la base al decreto del presidente della repubblica n. 616 del luglio 1977, che chiude quasi un decennio di dibattiti e di produzione legislativa circa l’ordinamento regionale.

Secondo il decreto 616/1977, l’urbanistica è “la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente”: tutto ciò è di competenza regionale. Allo Stato resta affidata la “identificazione, nell’esercizio della funzione di indirizzo e di coordinamento [...], delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale, con particolare riferimento alla articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ed alla tutela ambientale ed ecologica del territorio nonché alla difesa del suolo”. Si tratta però, di funzioni non precisamente determinate, di cui non si prescrivevano modalità, tempi e procedure di esercizio.

La “linea dei sistemi urbani”

L’approvazione della legge per la casa avrebbe dovuto rappresentare, come abbiamo già detto, l’avvio di un profondo rinnovamento nell’organizzazione pubblica dell’edilizia. Il governo di centro-destra che si costituisce nel giugno del 1972 (cosiddetto governo Andreotti-Malagodi) insedia invece una commissione con il dichiarato intento di fare marcia indietro rispetto alla legge di riforma approvata nel novembre precedente. Parallelamente a questa iniziativa istituzionale si sviluppano una serie di operazioni che nascono dal mondo della produzione: si tratta di quella che in quegli anni fu definita la “linea dei sistemi urbani”. Si tratta di un disegno che ha origine nel settore delle partecipazioni statali, dove la ricerca di nuove fonti di profitto e di rendita si salda con una più ampia trama politica che mira all’affermazione di un complesso modello di sviluppo fondato sulla “efficienza”, che dovrebbe essere garantita da un sistema di formazione delle decisioni accentrato in “agenzie” ovvero “amministrazioni funzionali” inevitabilmente estraneo, o meglio antagonista, rispetto agli organismi elettivi degli enti locali.

Una prima manifestazione della linea dei sistemi urbani si era avuta nella primavera del 1969 con l’iniziativa di un consorzio che raggruppava Iri, Impresit-Fiat, Bonifica ed altri, il quale proponeva di costruire la “nuova città nolana”: un insediamento di 100 mila abitanti, alle porte di Napoli. Da allora si susseguono le proposte di affidare alle imprese a partecipazione statale funzioni che fino ad allora erano di stretta ed esclusiva competenza dello Stato e degli enti locali. Si propone di affidare all’Iri il potenziamento dei porti, la costruzione dei nuovi aeroporti, dei nuovi centri universitari, delle infrastrutture urbane, metropolitane e territoriali.

Il riconoscimento ufficiale dell’interesse di aziende del sistema delle partecipazioni statali a gestire in prima persona il settore dell’edilizia e dell’urbanistica appare durante l’iter di formazione della legge sulla casa, quando l’allora presidente del Consiglio Emilio Colombo propose di superare la crisi del settore mediante la realizzazione di “sistemi urbani integrati”, che non sono mai stati definiti chiaramente, ma che avrebbero dovuto essere una specie di città nuove all’italiana, realizzate da enti pubblici e privati e da aziende a partecipazione statale.

In prima linea nella denuncia dei rischi insiti nelle manovre del governo e delle partecipazioni statali è l’Inu.

“Quale autonomia potranno avere le regioni nella predisposizione o nell’attuazione di una politica della casa e del territorio? Quale potere di pianificare lo sviluppo della città potrà rimanere agli enti locali? Il nuovo “cartello”, verticisticamente organizzato e sottoposto all’unico controllo di un organo dell’esecutivo (il Cipe?, non potrà non schiacciare il tessuto democratico delle autonomie locali (ancora stentato e precario) in nome delle esigenze dell’efficienza. E infatti evidente che nelle attuali condizioni solo particolari ed ingiustificabili privilegi potrebbero consentire funzionalità ed efficienza ai nuovi enti, e questi privilegi non potranno che essere pagati in termini di delega ad essi delle funzioni sociali e democratiche della collettività “ [ix].

L’approvazione della legge per la casa non sconfigge la linea dei sistemi urbani. Sembra anzi che le più potenti centrali del capitalismo italiano si siano preparate da tempo per gestire in proprio la nuova legge. Già sul finire del 1971 la Fondazione Agnelli propone un modello di programmazione dell’edilizia sul quale tenta (senza peraltro riuscirvi) di ottenere l’adesione delle regioni e dei sindacati. Subito dopo è l’Isvet (un istituto di ricerche dell’Eni) a muoversi sulla stessa strada e con proposte quasi identiche.

La linea dei sistemi urbani, il fascino dell’efficienza, il pretesto dell’ecologia riescono a raccogliere l’adesione di settori sempre più consistenti del mondo progressista (specialmente nel sindacato e nelle organizzazioni cooperative). La schiera degli oppositori è sempre più esigua ed isolata, fino a quando la crisi energetica conseguente alla guerra araboisraeliana del 1973 mette in crisi i presupposti essenziali delle manovre eversive di cui si è detto. Il repentino tramonto del modello di sviluppo basato sull’energia a basso costo rende di fatto insostenibile ogni ragionamento fondato sulle “magnifiche sorti e progressive” di uno sviluppo economico illimitato. Comincia la stagione delle vacche magre, delle risorse scarse. Ma è anche una stagione non arida di risultati. Enrico Berlinguer avvia la riflessione sull’austerità. Sono gli anni della solidarietà nazionale, in cui le forze che avevano condotto alla formazione della Repubblica e al varo della sua Costituzione sembrano trovare le ragioni profonde di una nuova intesa. Il completamento del processo di riforma avviato con la legge 167 del 1962 sembra un obiettivo possibile. Si riesce infatti ad ottenere l’approvazione di tre leggi importanti: quella sul regime dei suoli, quella per le procedure ed il finanziamento pluriennale dell’edilizia pubblica (cosiddetto “piano decennale”) e, soprattutto, quella che istituisce l’equo canone.

La legge Bucalossi sul regime dei suoli

Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 55 era stata approvata la “legge-tappo” del novembre 1968, che prorogava per cinque anni la validità delle previsioni degli strumenti urbanistici comportanti vincoli nei confronti dei diritti reali. I cinque anni trascorsero senza che fosse assunta alcuna concreta iniziativa e si fu così costretti, nell’ultimo giorno utile, ad approvare un’altra proroga biennale. Nel novembre 1975 ancora un rinvio di un anno. Questa volta è però accompagnato da un disegno di legge governativo di riforma del regime dei suoli che, finalmente, dopo un’ultima proroga di tre mesi, è approvato nel gennaio 1977. È la legge 28 gennaio 1977, n. 10, più nota come legge Bucalossi, dal nome del Ministro repubblicano per i lavori pubblici che ne fu l’autore.

Alla base della legge c’è la scelta nettamente a favore della separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà. In verità, sullo “scorporo” del diritto di edificare dal diritto di proprietà la Dc non dà mai un’adesione convinta. L’intesa fra i partiti di governo si realizza soprattutto grazie all’impegno di Pietro Bucalossi che minaccia le dimissioni (e quindi la crisi di governo) in caso di mancata approvazione del disegno di legge. Il principio della separazione viene però affermato

“in maniera ambigua, cosi da renderla accettabile al partito della proprietà, se è vero che qualche esponente della proprietà edilizia che aveva prima parlato “di una vera confisca (sic), giustificata dal troppo evidente inganno che la proprietà rimane nella titolarità dei proprietari”, dopo l’approvazione del consiglio dei ministri, afferma - peraltro con la medesima superficialità del primo giudizio - che “la legge non esprime più l’adozione di quel principio sovversivo” [x].

Il disegno di legge Bucalossi è approvato dal Consiglio dei ministri il 29 novembre 1975 e presentato al Parlamento 1’11 dicembre. Gli elementi portanti della riforma sono l’istituto della concessione onerosa, il convenzionamento dell’edilizia abitativa, il programma di attuazione dei piani urbanistici e la normativa contro gli abusi.

Il regime di concessione onerosa ha come presupposto la riserva pubblica del diritto di edificare. L’ente pubblico assente la concessione di questo diritto al proprietario dell’area, ovvero a chi ne ha la legittima disponibilità, per l’edificazione di opere conformi agli strumenti urbanistici. La concessione non incide sulla proprietà - che resta privata - dell’immobile realizzato. L’onerosità della concessione è parziale, nel senso che il contributo di concessione non costituisce il corrispettivo dell’intero plusvalore dell’area. Il contributo è infatti formato da una quota del costo di costruzione, variabile dal cinque al venti per cento, e da una quota afferente agli oneri di urbanizzazione.

Il convenzionamento dell’edilizia abitativa dovrebbe essere uno dei punti qualificanti della legge. Esonerando l’edilizia convenzionata dagli oneri di concessione si possono favorire gli imprenditori disposti a concordare con il comune i prezzi di vendita ed i canoni di locazione degli alloggi da destinare alle categorie meno abbienti, e quindi esercitare consensualmente un controllo del mercato delle locazioni.

Il programma poliennale di attuazione degli strumenti urbanistici serve ad evitare una delle più macroscopiche distorsioni che hanno accompagnato la crescita delle città, e cioè la contemporanea diffusione dell’attività edilizia in tutte le direzioni possibili e senza alcuna correlazione con gli interventi volti alla realizzazione delle infrastrutture e attrezzature. In tal modo i comuni sono stati costretti ad inseguire la disordinata diffusione delle iniziative private, sostenendo ingenti spese per la costruzione delle reti di urbanizzazione e per assicurare i minimi servizi (si pensi ai trasporti). Il programma poliennale di attuazione consente invece ai comuni di definire quali delle opere previste dal piano regolatore si possono realizzare in un determinato periodo, organizzando per tempo, ed in rapporto alle proprie disponibilità finanziarie, gli interventi pubblici necessari.

La nuova normativa contro l’abusivismo, fenomeno già allora in forte espansione, prevede, nei casi di maggior gravità, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’opera abusiva. La demolizione resta l’unica sanzione quando l’abuso contrasta con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali. Il fatto che l’acquisizione al patrimonio comunale non sia una facoltà ma un atto dovuto per il comune sembra il deterrente decisivo. Ma, come vedremo, l’abusivismo esploderà più violento di prima.

Il dibattito in parlamento rinfocola i contrasti. Il disegno di legge è in parte migliorato. Non vengono invece chiariti i nodi relativi al regime di proprietà delle aree edificabili.

“La mancata esplicitazione del principio della separazione costituisce un grave errore - anche politico - perché le riforme non si fanno con le riserve mentali (se c’è separazione, come c’è, non si vede per quale motivo non Si debba dirlo chiaramente), perché non ci può essere confusione su un principio che costituisce il presupposto del regime concessori (senza la separazione, infatti, la concessione si ridurrebbe ad un fatto meramente nominalistico), perché infine si potrebbe rischiare di incorrere in una nuova declaratoria di incostituzionalità (la logica della sentenza n. 55, è bene ricordarlo, è stata ribadita dalla Corte in una recente pronuncia)” [xi].

Facile profezia. Nel gennaio 1980, a tre anni dalla Bucalossi, la Corte costituzionale si pronuncerà ancora sulla incostituzionalità della legge urbanistica.

Nuove esigenze nella politica della casa

Nonostante le riforme legislative operate dal 1962 la questione della casa era ben lontana dall’esser risolta. Il settore era, nel suo complesso, estremamente articolato e ricco di sperequazioni e differenze quasi patologiche. Dal punto di vista degli utenti, si potevano distinguere cinque grandi segmenti dello stock di abitazioni:

1. gli alloggi abitati direttamente dei proprietari, di cui la politica centrista aveva continuamente aumentato il numero portandolo a livelli sconosciuti negli altri paesi europei,

2. gli alloggi privati condotti in affitto libero, che pagavano prezzi crescenti,

3. gli alloggi privati condotti a fitto “bloccato”, cioè ancorato al valore originario senza tener conto dell’aumento dell’inflazione, per effetto di una serie di leggi che, a partire dagli anni della guerra, avevano teso a proteggere gli inquilini dei ceti meno abbienti dai notevoli aumenti dei prezzi,

4. gli alloggi privati realizzati in aree Peep, preventivamente espropriate e assegnati a fitti convenzionati,

5. gli alloggi di proprietà pubblica, assegnati a canone “sociale”.

Gli inconvenienti di questa situazione erano notevoli: sperequazioni tra proprietari a fitto bloccato e altri proprietari, liberi di affittare a qualsiasi prezzo; sperequazioni tra inquilini, alcuni privilegiati dal livello irrisorio dei fitti (quelli bloccati e quelli sociali); rigidità del “mercato” e impossibilità di accedervi da parte delle giovani coppie; eccesso di alloggi nelle zone dell’esodo e carenze nelle zone d’immigrazione.

Particolarmente pesante era la situazione determinata dal blocco dei fitti. Questo era nato nel 1920, quando nei maggiori comuni erano stati istituiti i commissariati del governo per gli alloggi, con il compito di regolare in via provvisoria gli aumenti connessi alla proroga del blocco dei fitti e di determinare il canone più giusto nei casi controversi. Da allora si è andati avanti alternando il blocco con parziali liberalizzazioni: dal 1945 al 1978 si sono succedute ben quarantaquattro proroghe del blocco. La Corte costituzionale, nel gennaio 1976, ammonisce i pubblici poteri: un regime di blocco che può considerarsi legittimo solo in momenti eccezionali e con caratteri di “temporaneità” e di “straordinarietà”. Dopo la pronuncia della Corte si è perciò costretti a porre mano concretamente alla legge di regolamentazione degli affitti.

D’altra parte, lo stesso contenimento dei prezzi operato nelle aree Peep (per effetto della decurtazione iniziale della rendita fondiaria e del controllo sul prezzo finale operato con il convenzionamento) veniva vanificato dalla “concorrenza” provocata da un “mercato libero”, libero di spingere all’insù i prezzi degli alloggi. Né era possibile limitarsi a “sbloccare” la parte vincolata dello stock privato, ciò che avrebbe provocato tensioni sociali insostenibili.

Per affrontare risolutivamente la questione abitativa non bastava quindi più limitarsi a costruire abitazioni economiche per le fasce più disagiate, ne limitare l’intervento pubblico alla costruzione di nuove case. Del resto, in quegli anni erano emerse due consapevolezze nuove: da un lato, il fatto che l’età dell’espansione continua e indefinita era terminata, che “più case si fanno più ce ne vogliono”, e che non si poteva proseguire con “lo spreco edilizio” [xii]; dall’altra parte, il fatto che l’esigenza di disporre di un alloggio ad un prezzo commisurato al reddito e alla conseguente capacità di spesa era un “diritto sociale”, che doveva essere garantito a tutti.

Appariva infine palesemente errato proseguire con la tendenza di promuovere la proprietà diretta della casa: era un obiettivo ormai in contrasto con il trasformarsi dell’Italia in un’economia industriale matura, nella quale la mobilità della forza lavoro (da settore a settore e da luogo a luogo) diventava un’esigenza dello stesso sistema economico: è evidente che la carenza di case offerte in affitto a prezzi ragionevoli costituiva un ostacolo fortissimo alla mobilità sul territorio.

Ecco le ragioni per cui maturò la necessità di affrontare la questione abitativa nell’insieme dello stock edilizio, superando il blocco di una parte dello stock con una politica di “prezzi amministrati”: l’equo canone.

L’equo canone

Anche la vicenda della formazione della legge per l’equo canone è quella di una profonda interrelazione tra proposte del governo, lavoro parlamentare, confronto con le forze. Il primo disegno di legge governativo viene reso noto nella primavera del 1976. Le forse politiche e le parti sociali avanzano a loro volta proposte. Il dibattito parlamentare procede faticosamente per diciotto mesi, soprattutto sugli aspetti normativi. La legge finalmente approvata a larghissima maggioranza (29 luglio 1978, n. 392, “Disciplina delle locazioni degli immobili urbani”) è una legge oscura, ottantaquattro articoli densi di errori e di difficoltà interpretative.

Sulla base di una proposta del sindacato degli edili (che a sua volta riprende una proposta avanzata dall’Inu) si manifesta la linea di soluzione che verrà poi approvata. Si tratta di definire l’equo canone come una percentuale del valore locativo dell’immobile. Il valore locativo il prodotto della superficie convenzionale per il costo unitario di produzione. La superficie convenzionale è, più o meno, la superficie netta dell’alloggio. Il costo unitario di produzione è invece un costo base (250 mila lire a mq per il centronord e [1] 225 mila per il Mezzogiorno) moltiplicato per alcuni coefficienti correttivi (tipologia catastale, classe demografica dei comuni, ubicazione dell’immobile nel territorio comunale, stato di conservazione e manutenzione, ecc.) i cui valori numerici variano (nel disegno di legge) da 0,6 a 1,6. La prevalenza di valori inferiori o superiori all’unità determina, almeno da un punto di vista teorico, un campo di variabilità abbastanza ampio.

La legge per l’equo canone è stata spesso criticata, e infine dissolta. E’ necessario precisare che le colpe maggiori non sono della legge, quanto della sua mancata gestione.

[1]

[i]V. De Lucia, op. cit., p.93

[ii]Ivi, p. 94.

[iii] C. De Seta, La politica stradale dalla ricostruzione al miracolo economico, in “Il Ponte”, aprile 1969.

[iv] Ivi, p. 95.

[v] Ivi, p. 97.

[vi] Ivi, p. 104

[vii] Ministero del Bilancio e della programmazione economica, Progetto 80; rapporto preliminare al programma economico nazionale 1971-75, Libreria Feltrinelli, 19692.

[viii] Centro di studi e piani economici, Le proiezioni territoriali del Progetto ‘80, Roma 1971.

[ix] Inu, Documento sulla politica della casa, Inu, Roma 1970.

[x] M. Martuscelli, nell’introduzione a: F. Bottino, V. Brunetti, Il nuovo regime dei suoli, Edizioni per le autonomie, Roma 1977, p. 20.

[xi] Ivi, p 27.

[xii]Lo spreco edilizio, a cura di F. Indovina, Marsilio, Padova 1972. È una importante raccolta di testi sulla situazione della residenza in Italia negli anni di cui ci occupiamo. Cfr. anche: M. Marcelloni e G. Ferracuti, La casa: Mercato, Programmazione, Einaudi, Milano 1982

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4 Gennaio 2008

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