[…..] E così in quell'autunno del 1939. Eppure l'anno prima, sarà stato novembre, la mia compagna di banco mi aveva detto: “Da domani non vengo più a scuola"Perché? “Perché sono ebrea”. Giorgina Moll si chiamava, aveva un bel viso quieto, era un poco piu grande di me, bruna e gentile. Qualche anno fa una giovane donna mi lanciò animosamente: “Se non fosse stata ebrea l'avresti aiutata, saresti intervenuta, ti saresti informata”. No, temo di no. Funzionava il non sapere, non voler sapere, scansarsi - non dal pericolo, percepivamo confusamente not ragazzi, da una volgarità potente ma pur sempre accidentale. Fu una riduzione, il non fascismo, che non era l'antifascismo e credeva di starne fuori non senza una punta di sprezzo - sono le omissioni i veri peccati mortali. lo ero allenata a omettere.
Giorgina Moll non la vidi mai più. Mi dico, spero, che i suoi abbiano avuto il riflesso pronto, sia andata via, fuori dall'Italia. Che cosa dissero i professori di quei vuoti nei banchi? Niente. Che cosa chiesi? Niente. O furono domande e risposte elusive, di quelle che non restano. Siamo avvezzi a non chiedere e lasciare la prima risposta come viene. Ebrea che voleva dire? Chi era ebreo ? Nella nostra miscela triestina l'ebreo non lo trovo, non si diceva attorno a me il tale e ebreo o non lo é - l'ebreo come “altro” lo decide qualcuno, lo decisero il governo, il regime, i fascisti e sembrò di non dover ascoltare quella prevaricazione. Neppure la gran parte degli ebrei ne colse la gravità, o se la nascose o la ridusse. In ogni caso i miei compagni e compagne di scuola non si sentivano né erano sentiti diversi, e non basta un culto a farsi sentire tali. Lo e oggi per interposta Shoah. Venezia non era uno shtetl, dello shtetl credo neppure sapessero, se pur stava nella memoria di qualche vecchio parente. Dovevano essere ebrei come ero cattolica io, che non mi sarei sognata di dire a Giorgina: Sai, domenica sono stata a messa, tanto la cosa era indifferente. Così dal suo “non vengo a scuola perché sono ebrea» percepii che altri decidevano di noi, come sempre dei ragazzi.
Non un allarme. O che fosse addestrata a tacere o lei stessa non avvertisse che cosa covava in quella separazione. Era a scuola che non sarebbe venuta, non alla deportazione che sarebbe andata.
Fino a tardi fra la gente comune le distinzioni fra ebrei e non ebrei non esistettero né nel bene né nel male. Ma il male doveva essere così sornione e la gente così spossessata che la discriminazione si installò senza un sussulto. La furia mi prese dopo: chi non aveva avuto in casa, o vicino, degli antifascisti impegnati era venuto su nel silenzio. Al più - non so se meglio o peggio - un rifiuto che pareva aristocratico della politica, cosa sporca della quale non occuparsi. I miei appartenevano a questa cieca categoria.
E io ? E certo che per le vicende politiche non avevo uno spazio interno. Ma come mi comportai ? Che cosa rilevavo ? Il primo ricordo sono i manifesti “Si Si Si” che tappezzavano la scuola, avrò avuto otto anni, ero al Lido, gli zii non votarono e basta. Si diceva “il regime” come un'ovvietà. Ho in mente - o l'ho sognata? - una visita del re a Venezia, cui la scuola ci accompagnò, e la delusione nell'intravvedere oltre la siepe di folla un ometto senza corona.
Nulla di questo entrava nella quotidianità con la quale avevo a che fare, neanche quando ebbi dieci o dodici anni, salvo l'ora di ginnastica e la divisa. L'ora di ginnastica era tremenda, non riuscivo a percorrere l'asse di equilibrio senza precipitare, saltavo trenta centimetri o simili. “Patata! Polentona!” gridavano le maestre magre e diritte, capelli tirati sulla nuca, che provenivano dalla Farnesina. Una faceva “Ich!” col saluto romano per mostrarci come la massima estensione e dirittura del corpo corrispondesse a quella parola, e in tedesco funzionasse mirabilmente. Soltanto sul quadro svedese salivo, scendevo e caprioleggiavo, per cui cercavo sempre di infilarmici, ma quelle insegnanti malefiche mi spedivano sull'asse. Il mio corpo era pigro e non lo sapevo governare, a differenza di mia sorella Mimma, abituata dalla prima lunga malattia a prenderlo in conto e averne ragione. Mimma percorreva 1'asse fatale in punta di piedi, tipo farfalla, e graziosamente ne scendeva con un saltino. Inoltre saltava la funicella come una cavalletta e non lasciava cadere un pallone. Non posso reclamare ad antifascismo il mio disgusto per la ginnastica, legata a immagini littorie ma simile all'ora di religione, obbligatoria e non importante.
Mentre mi piacque la divisa da giovane fascista, era il primo tailleur con camicetta e cravatta. Con le stesse carte ci si iscriveva alla tal classe e alla categoria giovane italiana o giovane fascista. Non era un gesto, sarebbe stato un gesto dire: No, io no. Non mi venne mai in mente. Che cosa facessi dentro quella divisa non ricordo. Qualche scempiaggine devo aver detto o fatto se qualche tempo fa, a Torino, una compagna di classe dalla bella treccia bionda che ancora le circonda il viso, mi avvicinò a una conferenza nella quale ero stata verbalmente aggredita da alcuni seguaci di Nolte: “Ti ricordi di me? Sono Liliana. Dimmi, come è avvenuta la svolta ?” Quale svolta ? “Quella politica !” Politica ? Ero fascista ? “Eh, si”. Buon dio! Liliana era in piena buona fede, amichevolmente curiosa. Non ne dubitai, la memoria precipitò verso quel buio, vacillò, non pensò niente. Da allora ho frugato nel passato senza esito. Liliana Thalmann, si chiama, a che anni si riferiva? Non potevano essere che quelli che condividemmo al Manzoni, dunque fra i tredici e i sedici, fra il 1937 e il 1940, due anni di ginnasio e due di liceo, perche anticipai l'esame di maturità per guadagnar tempo. Dev'essere allora che Liliana mi ha visto giovane italiana o giovane fascista - era una graduazione per età - asserire non so che cosa, poi 1'ho perduta per mezzo secolo, fino alla sera di Torino. Perché non ricordo che diavolo ho fatto o ho detto? Che sia un tremendo rimosso? Non possono avermi sedotta le aquile e i gagliardetti, parenti del sole che sorgeva libero e giocondo, ridicoli. Mi ha tentato la retorica bellica, gente in trincea, Vinceremo?, o ero attratta da una certa impronta antiborghese, dall'ergersi eroico contro i modesti orizzonti, il buon senso del «chi te lo f fare”, insomma to ziopierinismo ?
Non so, ma questo potrebbe essere, mi dava fastidio e mi da fastidio anche oggi. Se fu, fu un atteggiamento obliquo, nato nell'indifferenza. Che e la peggior colpa, penso ora. Ma mi inquieta. Quindici, sedici anni adesso sono niente, allora non erano niente. E per come poi mi sbalestro il 25 luglio dovevano non essere stati niente. Fino ad allora il fascismo fu un panorama trovato, non scelto, ero una ragazza grigia. Quelli che Renzo De Felice definisce consenzienti col fascismo, quelli delle grandi adunate dove raccattare qualche brandello di identità, dovevano essere perlopiu grigi, il grande incolore del paese. Avrei cercato di individuarli con to sguardo fra il 1943 e il 1945 quando era decisivo capire se qualcuno di loro ti vedeva, ti notava, se ti avrebbe denunciato. Ma come distingui un grigio ? E non erano i grigi a denunciare. Oggi li penso con maggior pietà. Quanto a me, restai assordata dai fragori interni fino al 1943, quando su meta dell'Europa la guerra era gia passata, e per molti versi era decisa. Fino a quel momento mi difesi dal precipitar fuori e sbattervi il muso. La sbattuta fu violenta.[...]