Il senso del procedimento di revisione costituzionale in corso può essere meglio compreso alla luce delle precedenti fasi della nostra storia costituzionale: l'armistizio fragile (1943-1955), l'armistizio consolidato (1956-1968), il disgelo (1969-1978), la nuova glaciazione (1979-1993), il passaggio dalla lotta sulla costituzione alla lotta per la costituzione (1994-2001). L'armistizio fragile definisce gli anni in cui - malgrado l' idem sentire che rese possibile la concordia costituente - la situazione geopolitica era aperta ad evoluzioni armate, interne ed esterne, della guerra fredda. In quegli anni la Costituzione venne attuata solo nelle parti che disciplinano lo «scheletro» della democrazia: le regole di coesistenza che rendevano possibile il non ricorso alla guerra civile.
L'armistizio consolidato fa riferimento agli anni successivi, in cui le prime attuazioni della Costituzione testimoniano che non è più in gioco la sua revoca. Il completamento parziale e selettivo del quadro istituzionale è sintomo del fatto che il consolidamento della Costituzione avvenne attraverso il suo congelamento nella condizione, appunto, di «cornice» della politica. La parte «non minima» della Costituzione (il suo progetto riformatore) era riconosciuta solo come orizzonte di valori, non di programmi; come insieme di fini, non di mezzi. E tuttavia il «gelo costituzionale» fu gelo sì, ma non proposito di rovesciamento, se non da frange che furono dette, appunto, «eversive».
Il disgelo comprende gli anni in cui quell' idem sentire che aveva ispirato la scrittura della costituzione riacquista forza, e si fa consenso intorno ad un disegno di sviluppo sociale e (con meno chiarezza) di sviluppo politico. L'attuazione della Costituzione si pone come problema di attuazione di un insieme di politiche e di progressivo abbandono della conventio ad excludendum. I partiti dell'arco costituzionale vedono nella Costituzione non più solo un insieme di regole armistiziali sullo svolgimento della lotta politica, ma un modello complessivo di società (sono gli anni della riforma pensionistica, dello statuto dei lavoratori, dell'attuazione delle regioni, del servizio sanitario nazionale). Anche in questo periodo l'eversione fu forte e feroce, ma il sistema politico, nella sua parte assolutamente maggioritaria, continuò - almeno pubblicamente - a tenere rigorosamente separato il problema della difesa dell'ordine costituzionale da quello di un suo cambiamento.
Ma i giudizi sul decennio erano divaricati, e il tarlo dell'«eccesso di democrazia», o dell'eccesso di complessità, stava lavorando. La nuova glaciazione si è diffusa quando nel nostro sistema politico hanno trovato radici le suggestioni della rivoluzione passiva reganiana e thatcheriana e le parallele suggestioni maggioritarie e leaderistiche. Le une in polemica con il modello di welfare tardivamente realizzato nel decennio precedente; e le altre (la grande riforma craxiana) in polemica con l'evoluzione parlamentare del medesimo decennio, che avrebbe inevitabilmente portato in modo stabile il Pci nell'area delle forze di governo.
Questa seconda glaciazione - che può essere collocata tra il ristabilimento della conventio ad excludendum, con il cosiddetto «preambolo», e il referendum sul sistema proporzionale: il boomerang che colpì gli autori di quella chiusura - ha fatto regredire il riconoscimento della costituzione del 1947 oltre i limiti ai quali si era fermata la prima. Non solo non si è più visto nella costituzione un programma politico da attuare in funzione dello stabilimento di un modello di società attualmente condiviso, ma non si è più neppure accettato che la costituzione rappresentasse un quadro soddisfacente di fini proiettati sul futuro; e soprattutto si sono messe in discussione le regole sulle forme della lotta politica e sulla forma della democrazia: da democrazia organizzata, fondata sulla mediazione dei partiti, a democrazia individualistica, fondata sul rapporto immediato tra singoli e rappresentanti. Con quest'ultimo passaggio - presente già nella «grande riforma» - si è sancito che la Costituzione del `47 aveva cessato di rappresentare lo strumento essenziale di un equilibrio strategico vitale. Con questa ammissione si può dire che la costituzione materiale formatasi nel periodo del Cln sia finita.
I confini tra questa fase e quella successiva sono labili. Infatti, se la «lotta sulla costituzione» è il fisiologico, per quanto aspro, conflitto che ha per posta il prevalere di una o di un'altra sua interpretazione, e se la «lotta per la costituzione» è invece il patologico conflitto tra chi ne difende l'attuale validità e chi ne afferma invece interpretazioni svalutative, è evidente che profili di «lotta per la Costituzione» erano già presenti negli anni Ottanta. Ciò che è cambiato è il rapporto di forza, in quanto i fautori di una permanente validità della Costituzione del 1947, e della permanente normatività della cultura politica che l'ha ispirata, sono divenuti sempre più deboli. Sono assolutamente minoritari tra le forze politiche organizzate, e sopravvivono essenzialmente in «movimenti» spontanei e in settori della cultura giuridica e degli organi giurisdizionali. In questo senso si può dire che nell'attuale legislatura e in quella precedente la lotta sulla Costituzione sia stata sostituita dalla lotta per la Costituzione, che assume sempre più i connotati di una «resistenza»: come tale sparsa e minoritaria.
Che sia viva questa resistenza non deve consolare i giuristi più di tanto; e soprattutto non può nascondere il fatto che il progressivo sfarinamento della Costituzione sotto i colpi di culture politiche ostili non è stato al centro di una sostanziosa riflessione incentrata sui rapporti tra la Costituzione e il suo oggetto, e cioè l'insieme di quelle che sinteticamente possono essere chiamale le «strutture fondamentali» della società. L'escamotage consiste nel ritenere che - dopo la fine delle grandi narrazioni, delle ideologie, della lotta di classe, dell'azione collettiva, dei partiti di massa, del governo (che viene surrogato dalla governance), della politica (che si pluralizza nelle politics e nelle policies), della storia, della scalata al cielo ... - la costituzione si fondi direttamente sulla società, anzi sui singoli cittadini, che trovano in essa la carta dei «loro» diritti. Con il che, il problema della validità sarebbe risolto, in termini che potrebbero sembrare accettabili anche dal punto di vista di una teoria realistica, essendo ben possibile che alla costituzione dei partiti, alla costituzione dell'armistizio tra forze organizzate, succeda, con il diffondersi dell'area dell' overlapping consensus, la costituzione fondata su una cultura politica diffusa, sul diretto «dialogo» dei singoli con i principi costituzionali. Se non che questo modello finisce per restringere il ruolo della Costituzione pressochè esclusivamente nel circuito Corte costituzionale-giudice-individui, dunque nel circuito delle garanzie, presumendo che il problema dell'integrazione, o della costruzione dell'unità politica, o della politica costituzionale, sia risolto e scontato.
Se non si prende la scorciatoia della «costituzione dei diritti», resta il problema di come adeguatamente ristabilire la validità della Costituzione nel suo complesso (la «Costituzione politica»). Per far ciò è necessario ma non sufficiente utilizzarla come perfettamente valida, contro il dilagare dei giudizi, e dei comportamenti, svalutativi. Occorre tornare continuamente ad argomentarne le buone ragioni.
Ma con questo si viene al problema della definizione della fase attuale: è questo un compito ragionevolmente possibile, mentre sta entrando nella fase decisiva il progetto di riscrivere gran parte del testo della Carta del 1947?
Dipende dalle forze politiche. Se finirà il grossolano equivoco di vedere nella difesa della Costituzione un atteggiamento politicamente conservatore ed intellettualmente inerte, la deriva potrà essere contrastata, e forse arrestata. Il che produrrebbe un gran bene per il sistema politico nel suo complesso, anche per l'attuale maggioranza, perché un tale arresto potrebbe segnare un nuovo armistizio, un nuovo gesto di politica costituzionale nel senso più alto del termine. Se ciò non avverrà, si potrebbe temere - anche senza un'eccessiva dose di pessimismo - che la fase attuale sia destinata a configurarsi come quella dell'incubazione del «nemico interno». Sconfitte le residue forze che sostengono l'ispirazione dell'attuale Costituzione, posto il problema costituzionale non come problema di armistizio tra chi c'è per il solo fatto che c'è ma come problema di vittoria del bene sul male, che cosa potrebbe impedire che un progressivo squilibrio nei rapporti di forza - accompagnato da gravi crisi internazionali - porti a vedere nella minoranza un nemico, secondo un copione che i nostri paesi conoscono benissimo? Purtroppo qualche segnale comincia a intravedersi.
Sulla base di queste considerazioni possono essere specificati alcuni argomenti più strettamente politici. La domanda alla quale le forze del centro sinistra, tuttora, devono ancora dare una risposta chiara, è la più semplice: perché ci opponiamo a questa revisione? Si può rispondere in tre modi: perché siamo all'opposizione; perché il ddl costituzionale contiene degli sgorbi; perché contraddice alcuni principi fondamentali della nostra identità politica.
Se non si riesce a negare, in modo convincente, che la prima risposta sia quella «più vera» - come indurrebbero invece a credere le strategie costituzionali anche recenti (come la cosiddetta bozza Amato) - l'opposizione verrà giudicata solo strumentale (la variante estrema del'opposizione solo strumentale è «l'opposizione degli invidiosi»). Questo non significa che gli elettori che ritengono inaccettabile il ddl cesseranno di opporvisi, se condivideranno questo giudizio; ma certo l'indifferenza e la rassegnazione dilagheranno. La contraddizione tra il merito delle progettazioni costituzionali degli ultimi anni e l'intensità dell'opposizione parlamentare al ddl in questione (che nessuno nega) costituisce il tallone d'Achille del tentativo di radicare socialmente, in funzione referendaria, l'opposizione stessa.
La seconda risposta è seria e va ben coltivata. Potrebbe essere decisiva se il corpo elettorale fosse composto di individui perfettamente razionali, perché essi non avrebbero nessun motivo per avallare una revisione che dimostra frettolosità e incompetenza. Così però non è. La risposta ai referendum sarà, come sempre, più espressiva (di passioni e interessi) che riflessiva.
La terza risposta è quella che deve tuttora essere chiarita. La cultura costituzionalistica del Pci si è sempre ispirata, nella sostanza, all'idea di «democrazia progressiva». Nel 1993, il protagonismo assunto in occasione del referendum sulla legge elettorale ha rotto questa continuità e ha tentato di sostituire a quell'idea il modello Westminster. Tale strategia comportava, di necessità, la creazione di un grande soggetto politico pigliatutto (in senso tecnico e avalutativo) di centro-sinistra, ma comportava contemporaneamente l'accentuazione del carattere «pigliatutto» della stessa formazione politica post-Pci. Questo processo ha incontrato difficoltà, interne ed esterne. Interne, perché la dimensione e i caratteri della sintesi non sono stati chiari, ed è rimasto in dubbio se intendano abbracciare anche le domande che, per brevità e semplicisticamente, potremmo definire «anticapitalistiche». Esterne, perché le resistenze delle culture politiche tradizionali a dar vita ad un polo organico sono state molto forti. Da anni, così, si trascina la discussione intorno ai caratteri che deve/può avere la forma politica del complesso delle forze di centro sinistra, e ai mezzi per realizzarla. E' a questo proposito che scatta il problema costituzionale.
Le strade possibili imposte dalla camicia di Nesso, o dal letto di Procuste, del maggioritario sono due: o valorizzare la rappresentazione politica del pluralismo sociale e cercare unità d'azione; o privatizzare il potere sociale per rendere sempre più «specializzato» e separato, e dunque unificabile e personalizzabile, il potere politico.
Se si intende percorrere questa seconda strada è perché si pensa che dal pluralismo politico non possa venire niente di buono, perché i partiti sono di per sé veicoli di egoismo, di miopia, di irresponsabilità, di trasformismo, di instabilità e, dunque, di irrazionalità; e che sia pertanto necessario, e razionale, privarli della loro arma di ricatto più potente: il potere di crisi. E se per privarli del potere di crisi bisogna sostanzialmente annullare il ruolo del parlamento, anche ciò, in quest'ottica, appare doveroso e razionale. Ovviamente questa serie di giudizi comporta che le diverse culture politiche vengano considerate solo delle grossolane maschere, che non riescono neanche a nascondere il ghigno del taglieggiatore.
Chi ragiona in questo modo non può dire, decentemente, che la revisione in atto urti contro principi fondamentali della sua concezione della politica. Per cui delle due l'una. O la campagna parlamentare e referendaria farà leva essenzialmente sugli «sgorbi» del testo presentato dalla destra, oppure, se vorrà appellarsi a principi politici fondamentali messi in mortale pericolo, dovrà essere preceduta da una accurata revisione della catena di giudizi suddetti.
Postilla. La periodizzazione con cui si apre il testo mi sembra molto convincente. Ma gli anni della fase del "disgelo" non sono solo quelli "della riforma pensionistica, dello statuto dei lavoratori, dell'attuazione delle regioni, del servizio sanitario nazionale", ma anche quelli dell'introduzione degli standard urbanistici, della "legge ponte urbanistica", della politica della casa. I faticosi passi avanti nel campo delle condizioni di vita urbana e del controllo pubblico del territorio sono proprio ignorate dalla cultura non specialistica. (es)