Una Opera, di dimensioni straordinariamente vaste, tra Egitto, Etiopia e Sudan, che modificherà delicati equilibri ambientali, nonché le condizioni di sopravvivenza di uomini e altri esseri. Ma il business è terribilmente appetitoso:3400 milioni di euro, impresa Salini-Impregilo
Le posizioni dell’Egitto e dell’Etiopia, appoggiata dal Sudan, sulla messa in funzione della Grande diga etiopica della rinascita (Gerd), sono ancora lontane. Anche l’ultimo incontro, avvenuto la settimana scorsa a Khartoum, si è concluso con un nulla di fatto. Lo ha dichiarato ufficialmente il ministro degli Esteri sudanese, Ibrahim Gandur, alla fine dell’incontro del comitato tripartito cui hanno partecipato i ministri degli Esteri, delle Risorse Idriche e dell’Irrigazione, oltre che i responsabili dei servizi di sicurezza e di intelligence dei tre paesi.
Gandur ha aggiunto che al prossimo incontro, di cui non ha precisato la data, parteciperanno solo i ministri incaricati dell’irrigazione, che dovranno sciogliere gli intricati nodi ancora sul tappeto in quel settore. Solo in seguito saranno raggiunti dagli altri componenti del comitato. Gandur ha insomma fatto sapere che è ancora non concordata la questione chiave: quanta acqua resterà disponibile per l’Egitto con l’entrata in funzione della diga.
L’Egitto, che dipende quasi totalmente dal Nilo per il suo sviluppo agricolo e industriale, oltre che per il consumo umano, vuole garanzie certe che non sarà intaccata la quantità di acqua che fluisce nel suo territorio annualmente, pari a circa 50 miliardi di metri cubi. Questo è, in estrema sintesi, il punto cruciale anche della Dichiarazione di principi, firmata da Egitto, Etiopia e Sudan nel marzo del 2015. I tre paesi si erano impegnati a raggiungere il consenso sulla valutazione dell’impatto ambientale della diga prima che fosse messa in funzione. Ma questo consenso è ancora ben lontano.
Pare che il problema più importante riguardi il tempo di riempimento del bacino, della capacità di 74 miliardi di metri cubi di acqua. L’Etiopia pensa ad un massimo di cinque anni, mentre l’Egitto chiede un periodo molto più lungo, per garantirsi un maggior flusso di acqua durante tutta quella fase del progetto.
Ma il governo di Addis Abeba non si ferma davanti agli ostacoli del negoziato. La Gerd, costruita sul Nilo Blu a pochi chilometri dal confine sudanese, è ormai vicina al traguardo. Già nello scorso agosto il 60% dei lavori previsti era stato completato, mentre i primi test per la produzione di energia elettrica sono programmati entro la fine di quest’anno, con l’entrata in funzione di 2 delle 16 turbine, che, a progetto completato, produrranno 6.000 megawatt di energia elettrica. Anche il riempimento dell’invaso è già iniziato.
Prezioso ecosistema a rischio
Perciò in Egitto si comincia a pensare ad un piano B, che permetta di differenziare l’approvvigionamento idrico, garantito ora quasi totalmente dal grande Nilo Blu. E così si ritorna a parlare del canale di Jonglei, che dovrebbe drenare l’acqua dispersa dal Nilo Bianco nel Sudd - una vastissima zona umida che occupa una buona parte del territorio delle regioni centro settentrionali dell’est del Sud Sudan, con una superfice stimata di 57 mila chilometri quadrati - riportandole nell’alveo del fiume. In questo modo il Nilo Bianco potrebbe garantire risorse idriche aggiuntive pari a circa 4,7 miliardi di metri cubi all’anno.
Si tratta di un vecchio progetto egiziano, risalente agli anni Settanta. La costruzione del canale iniziò nel 1978 e fu interrotta dallo scoppio della guerra civile, nel 1983, quando ormai erano stati scavati 240 chilometri, dei 360 previsti. Proprio la costruzione del canale fu una delle ragioni per cui le regioni meridionali del Sudan si ribellarono. Infatti nella palude del Sudd vivevano, e ancora vivono, milioni di capi di bestiame, la ricchezza delle tribù pastorali dei Dinka, dei Nuer e degli Shilluk. Sull’allevamento del bestiame è basata non solo l’economia, ma anche l’identità sociale e culturale stessa di questi gruppi etnici, che sono i tre maggiori del Sud Sudan.
Inoltre nel Sudd - che rappresenta uno dei più grandi ecosistemi di acqua dolce del mondo - hanno il loro habitat innumerevoli specie di insetti, uccelli, rettili e mammiferi selvatici. Per questo è considerato una riserva straordinaria della biodiversità del pianeta, e come altre zone umide, è protetto dalla convenzione di Ramsar fin dal 2006. Si può dunque facilmente immaginare cosa succederebbe se la zona venisse prosciugata, e presto desertificata, per convogliare a nord l’acqua necessaria alla sopravvivenza di milioni di persone, di capi di bestiame e di specie viventi. Al disastro ecologico immane si sommerebbe una conflittualità perenne per l’accesso ai pascoli e alle risorse idriche, ridotti drasticamente dal drenaggio del territorio.
Tuttavia, nel 2008, durante una visita al Cairo di Salva Kiir, il presidente del Sud Sudan allora vice presidente del Sudan, si è ricominciato a parlare del vecchio progetto in termini concreti: la ripresa degli scavi del canale dopo l’eventuale indipendenza del Sud.
In un’altra occasione l’Egitto suggerì anche di considerare l’acqua drenata dal canale come la quota parte delle acque del Nilo spettanti al nuovo paese. Il progetto si è di nuovo arenato con lo scoppio della guerra civile, nel dicembre del 2013, ma si può star certi che verrà rispolverato appena il Sud Sudan ridiventerà un paese stabile. E la pressione per la sua ripresa sarà proporzionale alla sete d’acqua che la grande diga etiopica avrà causato all’Egitto. Al Cairo le lobby che sostengono la necessità per il paese di differenziare l’approvvigionamento idrico utilizzando anche le acque del Nilo Bianco si stanno facendo sempre più forti ed influenti.
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