«Che senso ha dunque interrogarsi sul futuro dell’agricoltura in un pianeta sempre più caldo se non ci si chiede anche e soprattutto come possiamo sfamare il mondo senza surriscaldarlo ulteriormente?» La Repubblica, 5 novembre 2016 (c.m.c.)
Il prossimo 7 novembre si aprirà a Marrakech la ventiduesima Conferenza delle Parti (Cop) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, sinteticamente detta Cop22. La ventiduesima da quel 1994 in cui i governi si trovarono per ratificare gli Accordi di Rio. Obiettivo principale di quest’anno sarà dare seguito agli accordi siglati lo scorso dicembre a Parigi, che hanno rappresentato un passaggio storico, ancorché perfettibile, nella salvaguardia di un futuro per l’uomo su questo pianeta.
A distanza di quasi un quarto di secolo dal primo incontro, in Marocco farà finalmente il suo ingresso al tavolo dei negoziati anche l’agricoltura, buona ultima. Lasciando da parte l’amara constatazione che averci messo così tanto per comprendere la centralità della produzione alimentare nell’impatto sul cambio climatico non rende onore alla lungimiranza dei governanti del mondo, bisogna tuttavia anche segnalare un vulnus nell’impostazione della Cop22: se infatti finalmente all’ordine del giorno compare la produzione alimentare, questa è presente principalmente come comparto minacciato dalla crisi ambientale in atto.
Questo è senza dubbio vero, ma è un discorso monco se non si tengono presenti le responsabilità che questo settore ha nell’accelerare lo stesso cambiamento climatico. L’agricoltura (intesa nella sua accezione più ampia e dunque fatta anche di allevamento e pesca) incide sulle emissioni di gas serra per un terzo del loro valore complessivo, una cifra enorme che supera l’intero settore dei trasporti o della produzione di elettricità. Si può ignorare questo fattore? Volendo andare più nello specifico, poi, scopriamo come il 14,5% delle emissioni totali di gas serra sia dovuta alla sola produzione di carne. È evidente che questo modello di produzione non ha futuro, e che se vogliamo incidere oggi dobbiamo per forza di cose intervenire anche qui.
La Fao avverte che se il trend di consumo di carne proseguirà ai tassi attuali, entro il 2050 la quantità di carne prodotta e consumata raddoppierà dai livelli attuali, con le conseguenze che possiamo facilmente immaginare. Che senso ha dunque interrogarsi sul futuro dell’agricoltura in un pianeta sempre più caldo se non ci si chiede anche e soprattutto come possiamo sfamare il mondo senza surriscaldarlo ulteriormente? Di questo devono parlare i nostri governanti riuniti in Marocco. Altrimenti sarà l’ennesimo buco nell’acqua o poco più.
È necessario promuovere un modello alimentare differente, è necessario sensibilizzare a un minor consumo di proteine animali ma di migliore qualità, bisogna incentivare metodi di allevamento che siano a basso impatto ambientale, a ciclo chiuso e non intensivi, agroecologici e attenti al benessere animale. E attenzione, queste esperienze non sono da inventare, alcune esistono da migliaia di anni e ancora oggi rappresentano la grande maggioranza dell’intera produzione mondiale (l’agricoltura familiare produce ancora oggi il 70% del totale del cibo sul pianeta).
Fatte queste considerazioni sorge però spontanea un’altra riflessione: chi ha la responsabilità di fare il primo passo? Chi deve avviare per primo un percorso di contrazione? La risposta è una e una sola: i paesi dell’occidente industrializzato e ricco. Si sente da più parti affermare che Cina e India o altri paesi in via di sviluppo, vista la loro popolazione enorme e in crescita, dovrebbero rallentare e non imitare gli stili di consumo del nord ricco. Ma come si può essere credibili con un discorso di questo tipo? I paesi ricchi sono stati fino ad ora e sono ancora i principali responsabili delle emissioni e dunque del cambiamento climatico.
Questo è un fatto. E allora ci vuole un gesto di coraggio e di onestà, tocca a noi rivedere i nostri consumi e i nostri modelli di produzione, tocca a noi segnare la strada per un cambiamento effettivamente promettente per il futuro, tocca a noi tracciare una nuova traiettoria di sviluppo possibile per tutti, senza giocare al gioco dell’“iniziate voi e noi vi seguiamo”.
La ventiduesima Conferenza delle Parti è una nuova opportunità che va colta una volta per tutte, non possiamo certo permetterci di attendere altri ventidue anni nell’attesa che qualcuno si decida ad agire.