L’area sempre più vasta del disagio abitativo in Italia è il tema che Gaetano Lamanna affronta con passione e competenza. La passione del sindacalista militante, la competenza di chi ha studiato e frequentato la materia. Non posso non ricordare che proprio sul tema della casa, e più in generale sulla condizione urbana, il sindacato diventò protagonista della vita pubblica alla fine degli anni Sessanta, contribuendo ad avviare «la più grande stagione di azione collettiva nella storia della Repubblica» (Paul Ginsborg). Tutto cominciò con lo sciopero generale del 3 luglio 1969, a Torino, dove il problema delle abitazioni era stato esasperato dalla decisione della Fiat di assumere quindicimila nuovi addetti da reclutare nel Mezzogiorno, il che avrebbe determinato un pesante aggravamento delle condizioni di vita. La Fiat propose addirittura di costruire baracche nei comuni di cintura e nelle fabbriche dismesse (tolto il letto e le suppellettili, restava uno spazio libero di un metro e sessantacinque centimetri quadrati per persona).
A mano a mano, il movimento si estese da Torino a tutta l’Italia. Per la prima volta, non solo le condizioni di lavoro, ma anche quelle di vita nella città, divennero il terreno di un forte scontro sociale che investì l’intero paese e culminò con il grande sciopero generale del 19 novembre 1969, per la casa e l’urbanistica. Nonostante la violenta reazione degli interessi colpiti (le bombe del 12 dicembre a Milano, le stragi e la strategia della tensione) si raggiunsero risultati importanti, a cominciare dalla nuova legge per la casa del 1971 che riorganizzò le forme, gli strumenti e le modalità dell’intervento pubblico in edilizia. A essa seguirono nel 1977 la legge sul regime dei suoli, l’anno successivo l’equo canone e il piano decennale per l’edilizia.
Parafrasando Giorgio Ruffolo, fu l’età dell’oro del compromesso socialdemocratico. Ma durò poco. Con gli anni Ottanta è cominciata la controriforma, e nel giro di pochi anni sono state cancellate una dopo l’altra le conquiste del ventennio precedente. Sono cadute la legge Bucalossi, le norme sugli espropri e quelle per il contenimento degli affitti, fino alla sostanziale dissoluzione dell’edilizia pubblica.
Ancora peggio con la crisi che dal 2008 continua a tormentare in primo luogo le classi sociali più sfavorite. Di questo soprattutto tratta il libro, della difficoltà di vivere e di abitare oggi, sviluppando con padronanza e con chiarezza (e con lingua asciutta, frasi brevi ed essenziali) i temi generali e quelli specifici, la fiscalità, la tassazione immobiliare, la sempre più pressante domanda inevasa, l’esclusione abitativa, il nodo mai risolto del contenimento della rendita. Lamanna ci spiega come nella politica della casa il valore d’uso (l’abitazione come tetto, spazio domestico) ha finito con l’essere sostituito dal valore di scambio (la casa come funzione finanziaria, come veicolo di risparmio). Non cade nella trappola del social housing all’italiana, “un bluff, o meglio un imbroglio”, business allo stato puro, i cui unici beneficiari sono i costruttori. E al riguardo non salva nessuno, denunciando «il ruolo primario, ma inefficace, delle Regioni».
Approfondisce in particolare l’analisi di una della più drammatiche condizioni abitative, quella degli anziani. Gli anziani soli, anzi le anziane, le vedove, più numerose per il minor tasso di mortalità delle donne. Analizza lucidamente le alternative di cui si discute: il ricovero, la soluzione residenziale, quella domiciliare, il cohousing (già oggetto di interesse di fondi immobiliari e di manovratori della rendita). Ma scrive che se togli un anziano dal suo spazio «lo vedrai deperire in pochi mesi, perdere la voglia di vivere». Sradicarli dal loro ambiente è una violenza. La via maestra è mantenere gli anziani nelle proprie case, senza cedere al fascino o al ricatto del nuovo che avanza.
Alla completezza dell’analisi settoriale fa da contrappeso l’attenzione con la quale Lamanna inquadra la politica della casa negli scenari più complessi ma non meno deprimenti delle politiche finanziarie e territoriali. “Rendita crescente, reddito calante” è il titolo di un capitolo che racconta della stretta correlazione fra declino dell’industria e sviluppo immobiliare. Una delle conseguenze del perverso intreccio fra mattone e finanza è stata l’immane valorizzazione delle aree urbane centrali, con l’espulsione dei residenti costretti a trasferirsi in periferie sempre più lontane, stressati dal traffico e dall’alienazione. Alla fine, l’urbanistica è stata obliterata, e anche da questo punto di vista destra e sinistra non sono riconoscibili. «Le amministrazioni locali – scrive Lamanna – hanno dovuto rincorrere i processi anziché programmarli. E i condoni edilizi a livello nazionale, le continue sanatorie a livello locale, tramite varianti, deroghe, cambi di destinazione d’uso degli immobili, sono stati rimedi peggiori del male». Ma di che meravigliarsi, nel 2005 non fu Piero Fassino, allora segretario dei democratici di sinistra, in un’intervista al Sole 24 ore, a riconoscere agli speculatori immobiliari il rango e la dignità di imprenditori?
Nel libro comanda il pessimismo, non si colgono orizzonti di cambiamento a portata di mano. Inutile illudersi e illudere che si possano facilmente riprendere linee di riforma, svolte e ripensamenti rispetto ai disastri dell’ultimo trentennio. Lamanna fa capire che per ricominciare la strada sarà lunga, faticosa, disseminata di insidie. Ma non viene meno al dovere di proporre istruzioni per il futuro. E ho specialmente apprezzato il suo schierarsi a favore di impostazioni alternative in materia di urbanistica, per il recupero e la fine delle espansioni, consapevole che il buongoverno urbanistico è la prima condizione per ridurre il disagio abitativo.