«Il processo di smantellamento è solo all’inizio: è difficile trovare tecnici disposti a esporsi alle radiazioni, così alcune aziende appaltatrici, legate ai clan di yakuza, ricorrono a manodopera meno tutelata». Il Fatto Quotidiano online, blog China files, 11 marzo 2017
Oltre 21 mila miliardi di yen (circa 170 miliardi di euro): è questa la stima più recente del costo totale dei lavori di bonifica e smantellamento della centrale nucleare di Fukushima Daiichi (in giapponese “Numero 1”), per una durata dei lavori prevista tra i 30 e i 40 anni. Appena tre anni fa le stime dei costi — che comprendono anche gli indennizzi versati alle famiglie evacuate dalle aree limitrofe all’impianto — erano dimezzate. L’11 marzo di 6 anni fa un terremoto di magnitudo 9.0 colpiva la regione del Tohoku, nel nordest del Giappone, innescando uno tsunami alto fino a 40 metri che ha causato la morte di 19mila persone. L’evento provocava anche malfunzionamenti nell’alimentazione dei reattori alla centrale scatenando un triplo meltdown.
Circa 160mila persone residenti intorno all’impianto furono costrette a evacuare la zona a causa della fuoriuscita di materiali radioattivi. Oggi, mentre la regione del Nordest cerca, a fatica, di rialzarsi, la centrale di Daiichi è ancora un enigma. In superficie, come racconta il Guardian, i lavori di messa in sicurezza procedono: le strutture esterne dei reattori danneggiate dalle esplosioni verificatesi poche ore dopo il terremoto e lo tsunami sono state messe in sicurezza e il terreno è stato coperto da materiali impermeabili che tengono l’acqua piovana in superficie.
Sono state aggiunte alcune strutture per il relax dei lavoratori tra cui una mensa e, a un km dall’impianto un piccolo supermercato aperto dalle 6 del mattino. Tuttavia i problemi rimangono e la loro soluzione sembra sempre più complessa. A cominciare, appunto, dalla gestione dell’acqua contaminata, un mix di quella pompata da Tepco per raffreddare i reattori e di quella sotterranea che scorre dentro i reattori nel suo corso dalle colline intorno alla centrale verso l’oceano. Nemmeno il “muro di ghiaccio” – una serie di tubature con tecnologia refrigerante inserite nel terreno della centrale intorno ai quattro reattori danneggiati, un’opera da circa 200 milioni di euro – è servito a impedire all’acqua di entrare nei reattori e fuoriuscire poi nell’oceano.
Tepco ha dovuto aggiungere dei pozzi di “sottoscarico” per raccogliere l’acqua, drenarla negli impianti di filtraggio e scaricarla nell’oceano. La maggior parte dell’acqua contaminata viene raccolta in cisterne saldate, alte 10 metri per 12 metri di diametro, che hanno gradualmente sostituito quelle a flange. All’interno di queste sono contenute oltre 900mila tonnellate d’acqua contaminata. Secondo quanto riferito dal settimanale Sunday Mainichi, oggi la parte collinare dell’impianto si presenta come una vera e propria “foresta” di cisterne di stoccaggio.
La sfida più complessa è poi quella del ritrovamento — e della conseguente rimozione — del combustibile nucleare sciolto depositatosi al fondo dei recipienti in pressione dei tre reattori gravemente danneggiati durante il terremoto e tsunami dell’11 marzo 2011. A fine 2014 Tokyo Electric (Tepco), la utilty energetica più grande del Giappone che gestisce anche i lavori di smantellamento del sito, era riuscita a rimuovere oltre 1500 barre di combustibile nucleare dal reattore numero 4, dove la bassa radioattività permetteva maggiori margini di manovra. Discorso diverso per i reattori 1, 2 e 3.
A causa dell’alta radioattività, l’azienda ha scelto di operare a distanza inviando robot in grado di raccogliere immagini e informazioni utili. La strategia non ha finora avuto successo. L’ultimo tentativo è stato fatto a febbraio di quest’anno.
Scorpion, un robot lungo circa 60 cm e dotato di telecamere, una sulla “coda”, che può essere alzata rispetto al livello del corpo, e rilevatori di temperatura e radiazioni progettato da Toshiba, è stato inviato all’interno del reattore numero 2, dove, in precedenza, erano stati registrati alti picchi di radioattività. La sua missione, la cui durata era stata programmata in 10 ore, è stata annullata dopo appena due ore.
Il robot ha incontrato difficoltà di movimento dovute — secondo le dichiarazioni ufficiali di Tepco — probabilmente “alle radiazioni o a degli ostacoli”. La macchina è stata costruita per resistere a un’esposizione fino a mille sievert per ora, abbastanza da riuscire a resistere agli alti livelli di radioattività registrati — tra i 250 e i 650 sievert per ora — impossibili da sostenere per un essere umano e difficili anche per robot di ultima generazione.
Tepco ha fatto sapere di essere riuscita a raccogliere informazioni importanti e che ha in programma di cominciare con l’estrazione di altre 500 barre di combustibile dal reattore 3 a metà del prossimo anno. Ma sui lavori di bonifica aleggiano altre ombre, in particolare circa le forniture di forza lavoro. Oggi nella centrale lavorano circa 6mila tecnici e lavoratori, alcuni esposti a dosi di radiazioni superiori alla media.
Recenti resoconti dei media giapponesi hanno rivelato che in alcuni casi i lavoratori sono poco preparati e troppo anziani per resistere a lunghe ore di lavoro. Nessuno vuole oggi lavorare a Fukushima, anche perché una volta finito l’incarico il reinserimento sociale dei lavoratori è complicato da episodi di discriminazione e isolamento. Qualcuno, però, lo deve pur fare. Così per sopperire alle carenze di manodopera, alcune aziende appaltatrici — alcune delle quali legate ai clan di yakuza — hanno reclutato senzatetto e anche qualche straniero, in particolare brasiliani di origine giapponese.
«Siamo all’inizio della scalata a una montagna», ha dichiarato Naohiro Masuda, direttore dei lavori alla centrale, al settimanale economico Toyo Keizai. «Abbiamo capito che tipo di equipaggiamento ci serve». Più critico, invece, è stato un tecnico di Greenpeace raggiunto dal Guardian. Le operazioni di smantellamento di Fukushima Daiichi, ha detto, sono un’opera che va «al di là di ogni umana comprensione».