Tutte le volte che si prova a discutere pacatamente di contenimento del consumo di suolo, diciamo in senso laico, realistico, non ideologico o peggio di pura bottega (esiste pure quello) ci si scontra con una montagna di ostacoli. Ce ne sono così tanti e vari che al momento me ne vengono in mente pochissimi, e forse neppure dei principali: dai militantissimi difensori soprattutto del suolo proprio, che di solito grata gratta si rivelano né più né meno che nimbies, in pieno diritto per carità, ma rischiano di ridicolizzare la seria causa ambientale; ai complementari, a volte pure sovrapponibili, interessati al mantenimento di uno status quo naturale, di una sociologia del territorio improvvisata quanto assai legittimata, che dice più o meno: la ricerca del buen retiro in campagna c'è sempre stata, da che mondo è mondo. Naturalmente e rigorosamente senza distinguere fra chi in campagna ci va a fare il campagnolo (come i ricchi veneziani che dopo aver accumulato coi commerci marittimi investivano sì nelle ville, ma anche nella produzione agricola: è quello il modello palladiano integrato), e chi invece ci va solo a stare, come dice il refrain pubblicitario immobiliare, immerso nel verde a tot minuti da dove lavora, studia, ecc. ecc.
Ora, è pur vero che sul serio da sempre esiste quella fascia intermedia fra città murata e campagna aperta, dove non necessariamente si svolgono attività agricole a tempo pieno ma capita anche di vedere l'antenato del villino o cottage ottocentesco e contemporaneo. Ma è altrettanto vero che un po' di senso delle proporzioni, se non si vuole straparlare e spararle troppo grosse, è d'obbligo. Cosa diavolo sarebbe, questo suburbio, questa villettopoli originaria, naturale, più o meno inscritta nel Dna umano, da cui lo sprawl americano o la dispersione all'europea o alla padana discendono darwinianamente e fatalmente? A ben vedere poco o nulla, qualche mattone sparpagliato, più o meno un fabbricato o due tirati su a poche centinaia di metri al massimo dai bastioni, senza troppa convinzione, e naturalmente tenendo ben in mente che non si sfugge dalla città, ma solo dal rumore e dalla puzza, coi metodi tecnici a disposizione. In assenza di depuratori, di giovani schiamazzanti della movida e di Suv, i fattori dell'equazione sono un pochino di distanza e i propri piedi. Più che la frontiera individualista di massa sognata da F.L.Wright quando ancora non se ne conoscevano gli effetti sociali e ambientali, sembra il testo della famosa canzoncina Mille Lire al Mese, quando l'onesto borghesuccio sogna di comprarsi “una casettina in periferia”.
Dispersione? Nuove frontiere sul modello tecnoburbio losangelino o trevigiano? Macché, solo la versione originaria di uno di quei quartieri londinesi che già Howard pensava di “raddrizzare” nei difetti già apparenti, spostandoli e integrandoli a un nuovo insediamento sostenibile. Ecco cosa cerca davvero il futuro cliente obbligato dei palazzinari dello sprawl: un quartiere meno scassato e chiassoso della media. Se ne sono costruiti a migliaia di aggeggi così, per tutto il '900, e la gente salvo eccezioni (lì la colpa è di qualche progettista inadeguato, non delle tendenze naturali) ci sta benone: il suo bisogno eventuale di spazi aperti lo sfoga nel modo ovvio, al parco o in una gita fuori porta.
Così non solo inventarsi una specie di diritto costituzionale a sprecare suolo e pompare scarichi nell'aria per arrivarci appare stupido e prevaricante, ma si illuminano della luce del falso storico anche tutte le ricostruzioni di presunti improbabili antenati nobili di serenità suburbana. Buon ultimo, un articolo comparso oggi sul Corriere edizione locale di Milano, in cui il sommo poeta Petrarca nei suoi soggiorni estivi milanesi cercherebbe sollievo dall'afa a Garegnano. Basta dare un'occhiata a dove sta, quel posto, oggi avviticchiato fra gli svincoli delle tangenziali, per capire che abitare lì anziché, diciamo, dentro la cerchia dei navigli, magari non faceva neppure differenza sul versante dell'afa o delle zanzare. Anche oggi passeggiare o pedalare dal centro fin lì non è certo un'impresa sportiva, e il fatto che la città sia arrivata a incrostare di cemento mica tanto bello tutta la zona magari può piacere poco, ma di sicuro è del tutto normale, nella media.
Francesco Petrarca, insomma, proprio come noi, preferiva stare in un posto piuttosto che in un altro, ma tenendosi ben stretta la versione sua contemporanea della Milano efficiente, densa, ricca di relazioni. Solo si scostava un pochino dalle puzze, magari dal fracasso: chiare fresche et dolci acque, certo, ma dal pozzo sotto casa, mica perse a trenta chilometri a dorso di mulo, sognando un'automobile. Insomma, attenzione alla pubblicità immobiliare subliminale, che arriva dalle direzioni più impensate e fa male all'ambiente, al territorio, e all'intelligenza dei lettori.