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Formazione e cultura in corso di demolizione
14 Settembre 2010
Articoli del 2010
La testimonianza di una docente precaria, una riflessione sulla cultura di Christian Raymo e le idee di Tullio De Mauro sulla scuola in Italia. Il manifesto, 14 settembre 2010

PRECARI IN RIVOLTA

La mia pazza idea di incontrarci sullo Stretto

di Emma Giannì



Dopo due anni di proteste, sta iniziando il terzo: la riforma avanza, i tagli aumentano e l'organizzazione scolastica è sempre più critica e instabile. Docenti offesi nella loro professionalità, colpiti nel loro lavoro; collaboratori scolastici trattati da parassiti e sminuiti nella loro funzione, come solo chi non ha mai vissuto la scuola dall'interno può fare. Classi intasate contro ogni normale criterio pedagogico, dove gran parte dell'ora passa solo per chiamare l'appello, controllare le «giustifiche» e avere un minimo di contatto umano con i propri alunni. Il resto dovrebbe essere dedicato alle spiegazioni, alle conversazioni, allo studio,alle verifiche, agli approfondimenti,ai rinforzi per i più deboli. Prime vittime sono i docenti e il personale Ata (collaboratori e amministrativi), non meno meritevoli, ma semplicemente precari, con contratti a tempo determinato anche da 20 anni.

Il bisogno di esternare la propria rabbia è grande. Il problema diventa pratico quando «gridare» il proprio disagio significa spostarsi di parecchio e per parecchie ore allontanandosi dalla famiglia e a spese proprie. Ci vuole una manifestazione, facilmente raggiungibile. Un punto simbolico ma anche pratico perché la situazione della scuola si avverte di più al sud, soprattutto in Sicilia. Ho individuato lo stretto di Messina raggiungibile in circa 4 ore e mezza dalla provincia siciliana più distante ma anche da Napoli e Bari. Ho immaginato un «incontro», un'unione tra la mia terra e il resto d'Italia, per dimostrare che non siamo solo numeri in elenco, che siamo tanti, in carne e ossa, precari e di ruolo e tanti genitori dei nostri alunni, e tanti alunni che lottano per la loro scuola e per la qualità della scuola; perché anche loro sono preoccupati delle ricadute che anche a lungo termine che produrrà la «riforma epocale»! Io lo chiamo un disastro epocale, perché nessuno verrà mai risarcito dei danni che ha causato e che ancora causerà.

Inizialmente la mia proposta non ha sortito grande effetto. Ci si preoccupava di un possibile fallimento, ma cosa avevamo da perdere? Niente. Siamo andati avanti con Fabiola e Maria Rita, testarde, e a poco a poco altri comitati e coordinamenti provinciali si sono accodati. Alcuni sindacati hanno dato la loro adesione, ma la manifestazione è stata interamente organizzata da noi tre, con il contributo prezioso e concreto di Didier. La cosa è cominciata a montare. L'iniziale previsione di 700 partecipanti è cresciuta gli ultimi due giorni, fin poi arrivare alle 2.500 presenze (secondo la questura).

Successo clamoroso. Articoli sulla manifestazione più o meno veritieri in ogni giornale e Tg. Giuro, non me lo aspettavo! È una soddisfazione vissuta a metà visto che comunque anche quest'anno non avrò una mia classe. Dopo 23 anni di precariato, negli ultimi sei mi ero guadagnata un incarico annuale, una sorta di «precariato stabile» che comunque mi avvicinava al ruolo. Uso il passato perché secondo la Gelmini non sono meritevole, non posso pretendere di lavorare nemmeno da precaria, non posso pretendere quello che lei chiama un «privilegio» che mi sono guadagnata con anni di studio, di impegno, di aggiornamento, di servizio. Mi degna di elemosina con l'«ammazza precari».

Perdo il mio lavoro solo per «esigenze di cassa», non mi si riconosce la mia esperienza di educatore, di formatore in nome del risparmio e della razionalizzazione. La situazione dei precari della scuola è la stessa dei lavoratori di Termini Imerese, ma la qualità della scuola è un problema che investe l'Italia intera, perché nella scuola si formano le personalità che abiteranno questa bella terra, e tutti meritano di essere seguiti con attenzione, qualsiasi strada prenderanno. Anche nel profondo sud, dove troviamo strutture fatiscenti, tetti rotti, palestre inagibili, condizioni di lavoro al limite della decenza. Lo so bene io che di scuole ne ho conosciute tante essendo stata assegnata ogni anno in una scuola diversa. In provincia di Agrigento la legge e la normativa su igiene e sicurezza è spesso un optional con piccole aule dove i banchi son stipati, addossati alla cattedra tanto che, a volte, bisogna scavalcarli per raggiungere l'uscita! Eppure si formano classi anche con 35-40 alunni... Nel frattempo, in un paese dove il ministro della pubblica istruzione parla di efficientismo, c'è un piccolo tesoro di provincia, la mia, Agrigento che da alcuni anni non ha il suo dirigente scolastico provinciale, ma svolge la sua funzione ad interim il dirigente dell'Usp di Caltanissetta.

Maria Stella l'ottimista

Maria stella l'ottimista

di Christian Raimo

Alle volte, di questi tempi, in fila alle poste incantati dallo scorrere indolente dei numeri di led luminosi rossi sul display in alto sopra gli sportelli, o nella bolla condizionata di una macchina, nelle città che si rianimano a inizio settembre, si può provare una leggera euforia punk, da repubblica di Weimar, da quiete prima della tempesta. Con i rapporti dell'Ocse o degli altri paternalistici organismi internazionali che continuano a declassarci in classifiche dietro stati di cui conosciamo a malapena la collocazione geografica, con le pubblicità di finanziarie dai nomi bambineschi che sulle pagine delle free-press fanno a gara con quelle dei siti di scommesse on line, con i negozi di alimentari che chiudono e lasciano il campo alle sale giochi con le slot machine o ai rivenditori di oro a diciassette euro il grammo, si ha la sensazione di stare in un punto finale: prima o poi le famiglie non ce la faranno più a fare da paracadute sociale, prima o poi i sindacati non riusciranno più a opporre resistenza di fronte a una deregulation darwiniana del mercato del lavoro, prima o poi la scuola pubblica e l'università non avranno più il fiato per reggersi su delle forze sempre più volontaristiche.

Certo, non a tutti il futuro italiano appare così catastrofico. Si respira, per esempio, a leggere le riviste popolari in attesa dal parrucchiere, un altro clima. Su Chi di questa settimana un Piersilvio Berlusconi (chissà che, così per dire, non sia lui o la sorella il prossimo leader del centrodestra) abbronzato e tonico riempie la copertina e ci elargisce consigli quasi-buddisti su come stare bene con se stessi. Sul numero della settimana scorsa invece - negli stessi giorni in cui migliaia di precari con decenni di supplenze alle spalle non ricevevano nemmeno la carità di una chiamata annuale - Maria Stella Gelmini anche lei non si lasciava avvelenare dal pessimismo. E ribatteva in una distesa intervista dalla sua casa di Ischia di non sentirsi schiacciata dalle incombenze del presente, e di avere anzi un progetto ben definito per il futuro: dopo Emma (una bella bimba paffutella, che ha ormai quattro mesi), adesso pensa a un maschietto. È questa, lo ribadiva a chiare lettere, la sua priorità, il centro di tutto - e quest'estate, mentre lavorava certo, si è dovuta occupare di come arredare la sua nuova casa al centro di Roma.

Non c'è mica da vergognarsi a pensare un po' ai fatti propri; soprattutto non c'è mica da vergognarsi a volerli raccontare anche a chi magari alla stessa età del ministro non si può permettere altra stanza dove dormire che quella della propria adolescenza, con i poster dei Queen ingialliti alle pareti.

Ma l'assenza di una fiducia minima nel futuro di questo paese si può riconoscere anche da altre impressioni sparse. Sempre a dar retta agli osservatori internazionali, il tasso di competenze dei lettori sta precipitando di anno in anno, insieme alla libertà di stampa, e agli investimenti nella cultura, eccetera, eccetera. L'elenco del declassamento italiano è una litania che abbiamo imparato a conoscere e a lasciare sfumare. E a dire il vero, non servono neanche tutti questi numeri; si ricava la stessa evidenza, se uno gira a zonzo per la propria città o fa una telefonata a qualche amico tornato dalle ferie. La marcescenza dell'incultura destrorsa che ha contagiato la nostra società ha fatto sì che, nella convinzione comune, si sia introiettata inconsapevolmente l'idea che il pensiero, la riflessione siano occupazioni depressive, che lo studio non serva, che passare tempo sui libri non sia fondamentale, che i luoghi dell'apprendimento siano le reliquie di un'epoca ormai al tramonto.

Mentre nel tempo d'estate gruppi di studenti organizzati, ricercatori universitari con una tesi di dottorato da completare migrano per un paio di mesi a studiare all'estero, a passare un luglio o un agosto nei campus organizzati dal British Council, o a consultare la bibliografia nella Bncf parigina, nella Library of Congress, nella biblioteca nazionale di Monaco o Berlino (aperte dalle 8 alle 24...), in Italia l'idea che d'estate si studi (anche) è peregrina, obsoleta, bizzarra.

A agosto, in grandi città come Roma o Firenze o Napoli, per dire, le biblioteche (nazionali, comunali, universitarie) chiudono del tutto, al massimo lavorano qualche giorno con orario dimezzato fino a pranzo, non hanno l'aria condizionata, l'accesso a internet, etc...; diventano luoghi che non accolgono nessuno.

Eppure non sarebbe difficile pensare alla questione biblioteche come un punto nodale - non solo simbolico - per un programma di sinistra. Non sarebbe troppo inventivo, per dire, che uno slogan di sinistra fosse: Una modernissima biblioteca pubblica in ogni quartiere oppure Mille nuove biblioteche in tutta Italia.

Il ventennale disastro civil-culturale, che in assenza di definizioni migliori abbiamo finito per chiamare berlusconismo, ma che è sinonimo di frantumazione sociale, di depoliticizzazione, di cinismo di massa, potrebbe cominciare a essere veramente contrastato (non tanto legittimando la conversione in articulo mortis di una certa destra a una minima etichetta costituzionale ma) provando a immaginare un paesaggio diverso con un po' di inedita lungimiranza.

Ossia? Ossia si potrebbe impegnarsi a invertire quel processo iniziato negli anni '80 per cui la gente ha preso a ritirarsi dai luoghi pubblici dentro le mura delle proprie case, ha progressivamente evitato il confronto con il resto del mondo, ha imparato a consumare cultura e intrattenimento in forma privata: si è - per farla breve - trasformata da società civile in audience.

C'è un libro di Antonella Agnoli, uscito da Laterza un anno fa, che s'intitola Le piazze del sapere e che - partendo dalla questione apparentemente tecnica di come ripensare le biblioteche pubbliche in una società in trasformazione come la nostra, dove comunità è sinonimo di facebook e dove la lettura è un'attività in progressivo declino - prova a buttare nell'ambito della riflessione sociale un'idea modestamente rivoluzionaria: «Ricostruire luoghi di dibattito, di conoscenza, di informazione: piazze ma anche biblioteche intese come piazze coperte dove la possibilità di incontrare amici sia altrettanto importante dell'opportunità di prendere in prestito un libro o un film».

A mali estremi, piccoli rimedi. E il vero male estremo - proviamo a capirlo una volta per tutte - non è neanche il federalismo d'accatto che si vuole approvare entro la fine dell'anno, e nemmeno la volontà di riformare l'intero apparato giuridico italiano per far sfuggire un sol uomo ai processi.

Il vero male estremo non si data nel presente, ma nell'eventuale futuro: ed è la riduzione delle ore nei licei, la sparizione degli spazi di dibattito politico, la chiusura dei teatri, la riduzione dei posti di ricercatori all'università, il mancato investimento nelle biblioteche pubbliche...

Stiamo diventando, senza accorgercene, un paese senza futuro: prima di innamorarci di questa cupio dissolvi, potremo anche avere un istante di ripensamento.

Alle volte, di questi tempi, in fila alle poste incantati dallo scorrere indolente dei numeri di led luminosi rossi sul display in alto sopra gli sportelli, o nella bolla condizionata di una macchina, nelle città che si rianimano a inizio settembre, si può provare una leggera euforia punk, da repubblica di Weimar, da quiete prima della tempesta. Con i rapporti dell'Ocse o degli altri paternalistici organismi internazionali che continuano a declassarci in classifiche dietro stati di cui conosciamo a malapena la collocazione geografica, con le pubblicità di finanziarie dai nomi bambineschi che sulle pagine delle free-press fanno a gara con quelle dei siti di scommesse on line, con i negozi di alimentari che chiudono e lasciano il campo alle sale giochi con le slot machine o ai rivenditori di oro a diciassette euro il grammo, si ha la sensazione di stare in un punto finale: prima o poi le famiglie non ce la faranno più a fare da paracadute sociale, prima o poi i sindacati non riusciranno più a opporre resistenza di fronte a una deregulation darwiniana del mercato del lavoro, prima o poi la scuola pubblica e l'università non avranno più il fiato per reggersi su delle forze sempre più volontaristiche.

Certo, non a tutti il futuro italiano appare così catastrofico. Si respira, per esempio, a leggere le riviste popolari in attesa dal parrucchiere, un altro clima. Su Chi di questa settimana un Piersilvio Berlusconi (chissà che, così per dire, non sia lui o la sorella il prossimo leader del centrodestra) abbronzato e tonico riempie la copertina e ci elargisce consigli quasi-buddisti su come stare bene con se stessi. Sul numero della settimana scorsa invece - negli stessi giorni in cui migliaia di precari con decenni di supplenze alle spalle non ricevevano nemmeno la carità di una chiamata annuale - Maria Stella Gelmini anche lei non si lasciava avvelenare dal pessimismo. E ribatteva in una distesa intervista dalla sua casa di Ischia di non sentirsi schiacciata dalle incombenze del presente, e di avere anzi un progetto ben definito per il futuro: dopo Emma (una bella bimba paffutella, che ha ormai quattro mesi), adesso pensa a un maschietto. È questa, lo ribadiva a chiare lettere, la sua priorità, il centro di tutto - e quest'estate, mentre lavorava certo, si è dovuta occupare di come arredare la sua nuova casa al centro di Roma.

Non c'è mica da vergognarsi a pensare un po' ai fatti propri; soprattutto non c'è mica da vergognarsi a volerli raccontare anche a chi magari alla stessa età del ministro non si può permettere altra stanza dove dormire che quella della propria adolescenza, con i poster dei Queen ingialliti alle pareti.

Ma l'assenza di una fiducia minima nel futuro di questo paese si può riconoscere anche da altre impressioni sparse. Sempre a dar retta agli osservatori internazionali, il tasso di competenze dei lettori sta precipitando di anno in anno, insieme alla libertà di stampa, e agli investimenti nella cultura, eccetera, eccetera. L'elenco del declassamento italiano è una litania che abbiamo imparato a conoscere e a lasciare sfumare. E a dire il vero, non servono neanche tutti questi numeri; si ricava la stessa evidenza, se uno gira a zonzo per la propria città o fa una telefonata a qualche amico tornato dalle ferie. La marcescenza dell'incultura destrorsa che ha contagiato la nostra società ha fatto sì che, nella convinzione comune, si sia introiettata inconsapevolmente l'idea che il pensiero, la riflessione siano occupazioni depressive, che lo studio non serva, che passare tempo sui libri non sia fondamentale, che i luoghi dell'apprendimento siano le reliquie di un'epoca ormai al tramonto.

Mentre nel tempo d'estate gruppi di studenti organizzati, ricercatori universitari con una tesi di dottorato da completare migrano per un paio di mesi a studiare all'estero, a passare un luglio o un agosto nei campus organizzati dal British Council, o a consultare la bibliografia nella Bncf parigina, nella Library of Congress, nella biblioteca nazionale di Monaco o Berlino (aperte dalle 8 alle 24...), in Italia l'idea che d'estate si studi (anche) è peregrina, obsoleta, bizzarra.

A agosto, in grandi città come Roma o Firenze o Napoli, per dire, le biblioteche (nazionali, comunali, universitarie) chiudono del tutto, al massimo lavorano qualche giorno con orario dimezzato fino a pranzo, non hanno l'aria condizionata, l'accesso a internet, etc...; diventano luoghi che non accolgono nessuno.

Eppure non sarebbe difficile pensare alla questione biblioteche come un punto nodale - non solo simbolico - per un programma di sinistra. Non sarebbe troppo inventivo, per dire, che uno slogan di sinistra fosse: Una modernissima biblioteca pubblica in ogni quartiere oppure Mille nuove biblioteche in tutta Italia.

Il ventennale disastro civil-culturale, che in assenza di definizioni migliori abbiamo finito per chiamare berlusconismo, ma che è sinonimo di frantumazione sociale, di depoliticizzazione, di cinismo di massa, potrebbe cominciare a essere veramente contrastato (non tanto legittimando la conversione in articulo mortis di una certa destra a una minima etichetta costituzionale ma) provando a immaginare un paesaggio diverso con un po' di inedita lungimiranza.

Ossia? Ossia si potrebbe impegnarsi a invertire quel processo iniziato negli anni '80 per cui la gente ha preso a ritirarsi dai luoghi pubblici dentro le mura delle proprie case, ha progressivamente evitato il confronto con il resto del mondo, ha imparato a consumare cultura e intrattenimento in forma privata: si è - per farla breve - trasformata da società civile in audience.

C'è un libro di Antonella Agnoli, uscito da Laterza un anno fa, che s'intitola Le piazze del sapere e che - partendo dalla questione apparentemente tecnica di come ripensare le biblioteche pubbliche in una società in trasformazione come la nostra, dove comunità è sinonimo di facebook e dove la lettura è un'attività in progressivo declino - prova a buttare nell'ambito della riflessione sociale un'idea modestamente rivoluzionaria: «Ricostruire luoghi di dibattito, di conoscenza, di informazione: piazze ma anche biblioteche intese come piazze coperte dove la possibilità di incontrare amici sia altrettanto importante dell'opportunità di prendere in prestito un libro o un film».

A mali estremi, piccoli rimedi. E il vero male estremo - proviamo a capirlo una volta per tutte - non è neanche il federalismo d'accatto che si vuole approvare entro la fine dell'anno, e nemmeno la volontà di riformare l'intero apparato giuridico italiano per far sfuggire un sol uomo ai processi.

Il vero male estremo non si data nel presente, ma nell'eventuale futuro: ed è la riduzione delle ore nei licei, la sparizione degli spazi di dibattito politico, la chiusura dei teatri, la riduzione dei posti di ricercatori all'università, il mancato investimento nelle biblioteche pubbliche...

Stiamo diventando, senza accorgercene, un paese senza futuro: prima di innamorarci di questa cupio dissolvi, potremo anche avere un istante di ripensamento.

«Li fate ignoranti»

Luca Fazio intervista Tullio De Mauro



Si apre tra le proteste l'anno scolastico dell'era Gelmini. Per Tullio De Mauro siamo un paese che punta a una scuola senza qualità. E in classe dovrebbero tornare anche gli adulti



Primo giorno di scuola. Tullio De Mauro, uno dei più importanti linguisti a livello europeo, ex ministro della pubblica istruzione, preferirebbe sorvolare sulla stretta attualità.

Professore, dobbiamo. Che ne pensa della riforma Gelmini e del clima che si è creato attorno alla scuola?

Che il clima sia brutto lo testimoniano le proteste dei precari, ma anche degli insegnati e dei genitori. I motivi sono diversi e strutturali, ma vorrei dire che le responsabilità non sono solo di questo governo. Gli istituti sono fuori norma, nelle scuole non è stato rimosso l'amianto, il numero degli alunni per classe deborda, per non parlare dei problemi mai affrontati, le carriere dei docenti, gli stipendi bassi, l'abbandono scolastico più alto d'Europa...

In più, su queste sciagure strutturali si abbatte la riforma Gelmini.

Vorrei cominciare col dire una cosa forse impopolare. Il ministro ha preso anche provvedimenti positivi.

Davvero? Dica.

Finalmente ha varato un prosciugamento dei diversi canali che si aprivano dopo la scuola dell'obbligo. Il genitore poteva scegliere tra centinaia di scuole superiori diverse tra loro, un incredibile dedalo di offerte che provocava solo un'impennata di abbandoni scolastici. Gelmini ha eliminato questo sconcio silenzioso riducendo molti indirizzi specifici.

Perché non è stato fatto prima?

Per le resistenze corporative di chi insegnava in questo o quell'indirizzo. E per la disattenzione della classe politica. Berlinguer aveva legiferato nella direzione giusta, ma la sua legge decadde prima di entrare in funzione. Gelmini, invece, ha una maggioranza blindata. Quanto al resto, si è limitata ad apportare aggiustamenti molto modesti per quanto riguarda l'orario, senza un ripensamento d'insieme degli obiettivi più alti che servirebbero per migliorare la scuola.

Migliaia di precari licenziati non sono proprio un aggiustamento modesto. Dice che non servono?

Certo che servono. Se hanno lavorato fino ad ora, anche senza alcun riconoscimento, e per anni, significa che senza di loro c'erano e ci saranno vuoti in organico. Abbiamo bisogno di più personale e pagato meglio, è il bilancio dello stato per la scuola che va totalmente ripensato. Ma questa è una responsabilità di noi tutti, e la causa va ricercata nello scarso impegno intellettuale e politico di chi aveva il compito di pensare un sistema scolastico moderno. E tutto il ceto politico non l'ha compreso, non solo quei malvagi del governo. Anche voi giornalisti vi occupate della scuola solo in termini emergenziali e non di prospettiva.

In Italia abbiamo la più alta percentuale di abbandono scolastico d'Europa, una media del 20% con punte del 25% al sud. Quale impegno servirebbe per invertire la tendenza? Siamo ancora in tempo o gettiamo la spugna?

Non è mai troppo tardi. Bisogna però sapere che la risposta non è solo nella scuola, ma in un nuovo sistema di educazione rivolto agli adulti. Nei decenni passati la scuola secondaria si era finalmente aperta a tutti coloro che uscivano dalle medie, così sono potuti entrare nel circuito formativo ragazzi che in casa non avevano nemmeno un libro. Questo afflusso enorme, e molto positivo, però ha messo in crisi le strutture mentali e culturali della scuola stessa, improvvisamente ci si è trovati di fronte non ai figli della borghesia ma a una realtà dove la cultura non circola.

Intende dire che stando così le cose l'abbandono è fisiologico?

Per forza. E sa come si aggredisce? Anche fuori dalla scuola. Dobbiamo deciderci a recuperare la scolarità degli adulti, questo è il vero punto debole. Lo fanno molti paesi. Perché non sarebbe possibile organizzare alcuni mesi di cicli formativi durante la vita lavorativa? Anche pagati.

Sembra che gli italiani abbiamo subìto un corso di dealfabetizzazione accelerato... solo il 20% degli adulti possiede gli strumenti minimi per comprendere un testo. E' la realizzazione della «dittatura morbida», come scrive nell'ultimo libro?

Sì. Si tratta di un'emergenza politica e democratica, con ricaschi anche nell'economia. Significa che troppi italiani non sono in grado di orientarsi nelle scelte più importanti per il paese.

Difficile che la morbida dittatura si adoperi per la rialfabetizzazione.

Eh già, a costo di sprofondare nell'argentinizzazione. Delle volte mi viene il sospetto che sia questo il motivo per cui il governo si accanisce con tanta ostinazione contro l'università.

Il 60% dei cittadini non legge nemmeno un libro all'anno. Quanta responsabilità hanno gli insegnanti? Crede che le nuove tecnologie possano essere di ostacolo?

Gli insegnanti sono parte integrante della società, anche loro sono dentro la media... La scuola dovrebbe sforzarsi di promuovere la lettura ma gli stili di vita e gli orientamenti prevalenti spingono in tutt'altra direzione, è difficilissimo invertire la tendenza. Le tecnologie possono essere molto utili, ma non dimentichiamo che solo il 50% della popolazione possiede un computer e solo il 38% naviga in internet, proprio per la scarsa propensione nella lettura. Le medie europee sono più alte.

Nei dibattiti sulla scuola il concetto di qualità è uno dei più abusati, ma cosa vuol dire, nello specifico, parlare di qualità nella scuola? Ha in mente un modello particolare?

A livello europeo sono stati indicati dei parametri di valutazione, ed è possibile fissarne alcuni sui livelli minimi di uscita: buon possesso della lingua madre, nozioni basilari di matematica, buona conoscenza di una lingua straniera. Ma soprattutto la scuola deve dare allo studente la voglia di continuare ad imparare per tutta la vita.

C'è qualcosa da salvare o salvaguardare nella scuola italiana?

Sì, ovunque si possono trovare ottimi insegnanti, a volte ne basta uno per motivare gli altri. Queste sono le isole felici, e ci sono, anche al sud. Ma tutto dipende dalla volontà degli insegnanti, quello che manca è uno standard minimo da cui siamo lontanissimi.

Faccia il ministro, anzi lo rifaccia. Punto primo del programma?

Nel '91 il manifesto mi fece la stessa domanda, e rispondo allo stesso modo. Chiederei pieni poteri economici, e poi sospenderei i diritti sindacali per cinque anni. Quando sono diventato ministro questa battuta poi me l'hanno rinfacciata... ma sa con quante sigle sindacali dovevo confrontarmi? Quarantasette... La prima battuta naturalmente è vera. Negli altri stati europei le riforme scolastiche sono sostenute in prima persona dai presidenti o dai primi ministri.

Le chiedo dei nostri politici?

Sarkozy, anche in piena crisi di popolarità, ha girato personalmente le scuole di mezza Francia. Se li immagina Berlusconi e Bersani che girano per gli istituti e si prendono la responsabilità di dire che sono disposti a stanziare un tot per la scuola pubblica? Io no, proprio non ce li vedo.

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