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Guido Crainz
Foibe, le ferite nascoste
9 Agosto 2008
Scritti 2007
Ricordare gli eventi a 360°, se la storia deve servire a qualcosa. Non tutti lo fanno, neppure ai piani altissimi. Da la Repubblica del 10 febbraio 2007.

Nel terzo anno in cui si celebra la "giornata del ricordo" delle vittime delle foibe e dell’esodo istriano – nella data del Trattato di Pace di Parigi, siglato il 10 febbraio del 1947, sessant’anni fa - è forse possibile comprendere ciò che l’iniziativa ha stimolato e ciò che ha lasciato ancora in ombra. Indubbiamente ha contribuito al superamento di una prolungata rimozione, ha permesso il riemergere della memoria dolente e ferita di una lacerazione significativa: eppure qualcosa sembra ancora sfuggire, la ricostruzione del passato appare ancora insufficiente.

Certo, è cresciuta la consapevolezza che il dramma del secondo dopoguerra è parte di una storia più lunga, e su questo si sofferma ora in modo puntuale un saggio di Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale (Il Mulino, pagg. 392, euro 27). Da tempo gli studi della Cattaruzza hanno richiamato l’attenzione su questo nodo, e hanno contribuito al tempo stesso a inscrivere il tragico epilogo della vicenda istriana in una vicenda più ampia, anch’essa largamente rimossa. Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo era il titolo di un volume da lei curato qualche anno fa assieme a Marco Dogo e Raoul Pupo che collocava l’esodo giuliano all’interno dell’Europa del 1945: con particolare riferimento alle feroci espulsioni di milioni di tedeschi dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dall’Ungheria, e alle ancor più feroci espulsioni reciproche di polacchi ed ucraini da aree che li avevano visti convivere per secoli.

L’Italia e il confine orientale è interamente dedicato alle vicende specifiche e di lungo periodo di quest’area: l’acutizzarsi delle tensioni fra nazionalità già all’interno dell’impero asburgico; la radicalizzazione nazionalistica provocata dalla prima guerra mondiale e l’annessione all’Italia di territori in cui vivevano centinaia di migliaia di sloveni e croati; il violento affermarsi del fascismo e poi la politica del regime; l’occupazione italiana e tedesca della Jugoslavia nel 1941 e poi l’operare – dopo l’8 settembre del 1943 - della "Zona di operazioni Litorale Adriatico", alle dirette dipendenze della Germania. In questo quadro incandescente – in cui gli odii fra nazionalità erano già portati all’estremo - si inserì la politica di Tito, volta esplicitamente ad annettere alla Jugoslavia l’intera Venezia Giulia. Di qui i traumi drammatici della fase finale della guerra e del dopoguerra, con la tragedia delle foibe e l’esodo della quasi totalità degli italiani da quelle zone.

Una storia di lungo periodo, dunque, tratteggiata efficacemente molti anni fa in uno dei tanti, densi romanzi dello scrittore istriano Fulvio Tomizza, La miglior vita. Su questa stessa storia rifletteva già nel 1947 Ernesto Sestan, il grande storico di origine istriana, che dedicava «alle ceneri dei miei vecchi, là nel cimitero di Albona» un libro di straordinaria e dolente finezza intellettuale, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale. Il dolore non faceva velo alla lucidità critica dello storico, capace di tratteggiare magistralmente l’inasprirsi dei nazionalismi ottocenteschi, e poi le responsabilità del fascismo. «Un fascista giuliano che sarà poi ministro di Mussolini», annotava Sestan, «ha riassunto così "il programma di snazionalizzazione: "Bisogna impedire agli avvocati slavi che sono pericolosi la libera attività (…). Bisogna togliere i maestri slavi dalle scuole, i preti slavi dalle parrocchie"». I più, nella popolazione italiana, "applaudirono o assentirono tacendo".

In questo quadro irrompe la guerra, e nel 1941 vi è l’occupazione della Jugoslavia da parte della Germania, dell’Italia e dell’Ungheria: quell’aggressione congiunta, osserva Marina Cattaruzza, «implicava per il popolo sloveno un pericolo incombente di estinzione», provocava «un senso di giustificata angoscia» per la possibilità stessa di sopravvivere come entità collettiva.

Abbiamo da tempo documentati studi sulla crescente ferocia dell’occupazione fascista della Slovenia, così come sul trauma dell’8 settembre e poi sul controllo nazista del territorio. Per una breve fase in Istria, in quel settembre, sono i partigiani jugoslavi a tenere il campo, e si ha allora la prima esplosione di violenze anti-italiane. Si svolge in quei giorni anche il dramma di Norma Cossetto, uccisa barbaramente a ventitré anni: un libro di Frediano Sessi, Foibe rosse (Marsilio, pagg. 149, euro 12) lo ricostruisce con sensibilità e partecipazione. Ai molti studi sulla tormentata e complessa fase che porta al dopoguerra si aggiunge ora uno sguardo non riducibile a schemi e a odii, una "anomalia" di grande umanità: Borovnica ‘45, al confine orientale d’Italia. Memorie di un ufficiale italiano, di Gianni Barral (a cura di Renzo Timay e con penetranti Note di inquadramento storico di Raoul Pupo). Il testo è pubblicato dalle Edizioni Paoline (pagg. 303, euro 16), ma era già comparso nella rivista Zaliv (Il golfo), fondata e animata dallo scrittore sloveno di Trieste Boris Pahor.

È davvero una testimonianza particolare. Agli inizi del 1943 Barral è un giovane studente di origine provenzale, ufficiale degli alpini, inviato a presidiare la Valle dell’Isonzo: scopre qui il mondo sloveno, nella cui cultura e nella cui lingua si immerge con passione. Conosce, anche, la ragazza che poi sposerà. Il suo sguardo ci avvicina a un caleidoscopio di culture e di vicende, ci fa scoprire inaspettati momenti di solidarietà umana e di pietas anche all’interno delle diverse fasi di una guerra feroce, e di un feroce dopoguerra: nel maggio del 1945, dopo un complesso percorso, Barral è deportato appunto nel campo di concentramento di Borovnica, un inferno. Per la sua conoscenza dello sloveno è utilizzato nell’amministrazione del campo, e ce ne riferisce. Il maggio del 1945 è anche il mese che segna il culmine delle violenze anti-italiane a Trieste, Gorizia e nelle zone controllate allora dai partigiani jugoslavi, con migliaia di persone gettate nelle foibe o uccise nelle prigioni e nel corso di disumani trasferimenti (muoiono in questo modo anche sloveni e croati ostili al nuovo regime).

Inizia allora la fase che porta alla Conferenza di Parigi, cui Alcide De Gasperi si presenta con amara e lucida consapevolezza: «Prendendo la parola a questo congresso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me» (è il tema de L’Italia e il trattato di pace del 1947 di Sara Lorenzini, pubblicato ora da Il Mulino, pagg. 218, euro 12). Prende avvio in quei mesi il grande esodo: «I fuggiaschi di Pola e dell’Istria», scriveva Giani Stuparich, «sbarcavano come storditi, si afflosciavano sulle rive, accanto alle loro misere masserizie». Si alternano allora speranza e disperazione, alimentate sino al "Memorandum di intesa" del 1954 dalle discussioni fra le potenze sulla definizione dei confini: e l’esodo non conosce più freni quando quei confini appaiono ormai tracciati.

È la vicenda che ci è stata raccontata con grande intensità da Marisa Madieri, Anna Maria Mori, Nelida Milani, o dall’Enzo Bettiza di Esilio, e da una miriade di altre voci. A lungo inascoltate, o quasi, ci hanno riproposto straniamenti e sofferenze, non solo materiali. Hanno disegnato l’immagine di un’Italia che «all’inizio è stata una matrigna», per citare una delle testimonianze proposte da Enrico Miletto in Istria allo specchio (Franco Angeli, pagg. 288, euro 16). Utilizzando con intelligenza e attenzione un’ampia mole di fonti orali Miletto ricostruisce le molteplici vie che disperdono istriani e dalmati nell’umiliante esperienza dei campi profughi e altrove, in un’Italia che mostra spesso estraneità, incapacità di accogliere. Continuando un lavoro precedente (Con il mare negli occhi, pubblicato sempre da Angeli) Miletto pone quella Italia, in realtà, di fronte a uno specchio impietoso.

Una storia lunga, dunque, un intrecciarsi di dolori e lacerazioni che possiamo comprendere appieno solo ponendo a confronto punti di vista differenti, facendo dialogare le diverse e opposte memorie che in questa storia si sono sedimentate, al di qua e al di là di confini che dovrebbero ora avviarsi a scomparire. Questo in larga misura ancora ci manca, e a colmare questa lacuna occorre lavorare. Possono acquistare ulteriore, positivo significato in questo quadro quegli atti simbolici e istituzionali di pacificazione fra Italia, Slovenia e Croazia che sono ancora allo studio, e di cui si è parlato anche di recente. All’interno della costruzione di un’Europa più ampia atti pubblici di questo tipo sono stati compiuti da tempo in paesi segnati da lacerazioni del passato ancor più profonde. E naturalmente atti simbolici diventano realmente fecondi se li accompagnano processi culturali capaci di coinvolgere in profondità la società, la scuola, tessuti connettivi differenti e molteplici. Siamo ancora lontani da questo. Siamo lontani da un confronto diffuso di conoscenze e di vissuti che sappia comprendere le sofferenze e i dolori di tutte le vittime, e che permetta a ogni comunità nazionale di riconoscere anche le proprie responsabilità. Alcuni anni fa una commissione storico-culturale italo-slovena ha segnato comunque un avvio importante, mentre nei rapporti con la Croazia le rigidità e le difficoltà sembrano maggiori anche su questo terreno. È solo piccola parte, naturalmente, del più ampio confronto culturale che riguarda un’Europa segnata sotterraneamente più di quanto si creda da traumi lontani: lo hanno segnalato l’estate scorsa le accese polemiche suscitate in Germania, in Polonia e altrove da una mostra berlinese sulle espulsioni di tedeschi dall’Europa centro-orientale del 1945. Misurarsi con ferite talora nascoste, rimuovere sordità, far dialogare memorie ancora tenacemente divise appare oggi aspetto non secondario e non superfluo di un impegno culturale.

Sulle foibe, altre letture consigliate anche al Quirinale: Corrado Staiano, Claudia Cernigoi e Galliano Fogar.

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