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Corrado Stajano
Foibe, la memoria e gli avvoltoi
27 Febbraio 2005
Italiani brava gente
Un bravo giornalista ricorda anche l'altra faccia della realtà: i crimini degli italiani contro sloveni e croati. Da l'Unità del 4 febbraio 2005

La memoria delle foibe è atroce e sessant’anni dopo continua a lacerare gli animi. Se si decide di dire la verità bisogna farlo con coraggio, senza nulla temere, senza ambiguità, senza nascondere o mascherare quel che accadde. È necessario dire tutto senza fini di parte evitando di adoperare quei fatti per trarne vantaggi politici. Il ministro Gasparri, di cui è nota l’eleganza del pensiero e dell’azione, ha dato dell’infoibatore (Il Piccolo, 30 gennaio), a chi critica la strumentalizzazione dei crimini commessi dai partigiani di Tito.

I quali, mossi da odio ideologico e nazionalistico, gettarono nelle foibe del Carso migliaia di avversari politici, non soltanto italiani, non soltanto fascisti.

Claudio Magris, limpido scrittore, conosce meglio degli altri, uomo di frontiera qual è, il valore della moderazione, capace di tutelare quanti temono il mondo ostile di là dalle mura. Davanti alle affermazioni del rozzo ministro il quale, con quelle parole, confessava in sostanza il suo ruolo di strumentalizzazione, Magris ha reagito con severità inconsueta ( Corriere della Sera, 1 febbraio), anche perché ha vissuto e sofferto quel dramma e ne ha scritto spesso e sempre senza paraocchi.

Ha fatto una lezione al ministro e a quanti rovesciano la realtà per fini non nobili. Ha sottolineato la cecità e l’abuso dell’estrema destra che ricorda quei delitti soltanto per rinfocolare i propri rancori razzisti antislavi. Ha criticato il calcolo opportunista di tanta sinistra italiana che per macchiavelleria ha cercato in passato di ignorare, dimenticare e far dimenticare la tragedia delle foibe e dell’esodo istriano, fiumano e dalmata affinché non si parlasse delle responsabilità del comunismo. Ha alzato la voce contro i moderati che hanno avuto tutte le possibilità di esprimersi e sono stati invece zitti. «Fino a pochi anni fa, ha scritto Magris, parlare delle foibe non serviva” alla lotta politica e dunque non se ne parlava. Oggi quei morti servono e dunque se ne parla, ma per usarli quali strumenti di una lotta politica che non ha nulla a che vedere con la storia di quelle tragedie. (...) Si conosca e si sappia la storia dele foibe. Ma che oggi la destra al potere - erede di quella colpevole della nostra catastrofe nella Seconda guerra mondiale e della mutilazione dell’Istria - usi le foibe per difendere il proprio potere è una bestemmia. Usare oggi le foibe contro la sinistra italiana di oggi è indegno».

Se non si fa uno sforzo anche scolastico di ripensare quel che accadde nel Novecento in quella che fu definita la polveriera balcanica, dall’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando che provocò lo scoppio della Prima guerra mondiale ai guasti del fascismo alla Seconda guerra mondiale al dopoguerra a oggi non si riuscirà mai a servire la verità. È necessario almeno partire dal fascismo, ripensare alla cancellazione dei diritti delle minoranze croate e slovene nelle terre italiane. E poi all’invasione nazifascista della Jugoslavia nel 1941. Altro che «italiani brava gente». La 2ª Armata comandata dal generale Roatta, si comportò spesso con la ferocia mutuata dai nazisti. Per le atrocità commesse il generale finì negli elenchi dei criminali di guerra. La provincia di Lubiana fu allora annessa all’Italia, fu creato il regno di Croazia dove fu spedito a regnare persino un re nostrano, Aimone di Savoia Aosta, Zvohimiro II.

In un piccolo prezioso libro di Guido Crainz, storico e conoscitore della società, Il dolore e l’esilio, appena uscito da Donzelli, è riportato un documento davvero impressionante, la circolare 3C del generale Mario Roatta (1 marzo 1942), «che prevede di incendiare e demolire case e villaggi, uccidere ostaggi, internare massicciamente la popolazione. Il suo spirito è riassunto da Roatta nella massima: “Non dente per dente, ma testa per dente”. In base ad essa si disponeva l’arresto, la confisca dei beni e l’internamento per le famiglie da cui mancassero dei membri: sospetti, quindi, di essersi uniti ai “ribelli”» (...) «Occorre distruggere i paesi e sgomberare le popolazioni», ribadisce Roatta nell’agosto 1942 ai comandanti di corpo d’armata. E il generale Robotti, sempre nell’agosto del 1942, dà queste indicazioni ai comandanti di divisione che ha convocato: «Non importa se nell’interrogatorio si ha la sensazione di persone innocue. Ricordarsi che per infinite ragioni anche questi elementi possono trasformarsi in nostri nemici. Quindi sgombero totalitario. Dove passate levatevi dai piedi tutta la gente che può spararci nella schiena. Non vi preoccupate dei disagi della popolazione. Questo stato di cose l’ha voluto lei. Quindi paghi». E poi: «Lo stesso generale in quel tempo annotava su un documento: “Si ammazza troppo poco!” E ancora: “Gli uomini non sono nulla e l’unica cosa che conta è il Paese e il suo prestigio, assieme a quello del regime».

Mussolini, a Gorizia il 31 luglio 1942, parla in questo modo: «Sono convinto che al “terrore” dei partigiani si deve rispondere con il ferro ed il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta. (...) È cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto per il bene del paese ed il prestigio delle forze armate. Questa popolazione non ci amerà mai».

Almeno in questo Mussolini vede giusto. Bastano i pochi documenti citati a far capire che cosa è successo in quel magma incandescente: non vogliono di certo servire ad alimentare giustificazionismi di maniera per le atrocità commesse poi dai partigiani comunisti di Tito e per le loro vendette. Vogliono semplicemente esser utili per cercare di capire gli snodi degli avvenimenti.

Nel 1943 esplode una rivolta contadina parallela alla guerra partigiana. Le vittime non sono soltanto i fascisti, ma tutti coloro che fanno ricordare l’amministrazione italiana odiata per il suo fiscalismo, per le sue vessazioni poliziesche. I connotati etnici della rivolta e di quelle terribili morti si saldano allora con motivazioni sociali. Nel 1945 le vittime sono soprattutto i militari di Salò, ma vengono perseguiti e uccisi nelle foibe dai titini anche gli antifascisti del CLN che disturbano l’egemonia comunista. E con loro tutti quanti rappresentano una qualsiasi autorità, segretari comunali, maestri, farmacisti, postini, guardie campestri. Italiani.

Scrive Crainz, studioso che esce dai nudi schemi di molti compilatori di vicende umane, pieno di curiosità nei confronti delle culture e degli stili di vita che gli servono a dar corpo alla storia, come furono tragici, in quelle terre, gli anni dal 1941 al 1945. Segnati dai difficili rapporti tra la Resistenza jugoslava e quella italiana, dalle decisione di Tito di occupare e di annettere Trieste e tutta la Venezia Giulia, «dalla sostanziale subalternità dei comunisti italiani rispetto a quella volontà, pur tra oscillazioni e contraddizioni». Sullo sfondo di una guerra aspra tra gli eserciti nazifascisti affiancati dagli ustascia di Ante Pavelic e l’armata partigiana di Tito.

Marco Galeazzi, su l’Unità (2 febbraio), ha elencato gli storici, non pochi e di prim’ordine, che nei decenni hanno studiato in modo approfondito la questione istriana, le foibe, il comportamento del Pci. Tra gli altri, Giovanni Miccoli, Galliano Fogar, Giampaolo Valdevit, Roberto Spazzali, Raoul Pupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Trieste che ha scritto molto su questi temi nel corso del tempo e ha appena pubblicato un libro importante, Il lungo esodo, (Rizzoli), accentrato soprattutto sull’abbandono delle proprie case e delle proprie terre, tra il 1944 e la fine degli anni 50, di 250mila italiani di Zara, Fiume, delle isole del Quarnaro, dell’Istria diventate jugoslave.

Tutto questo per dire che esistono opere scientifiche di livello alto, esistono i documenti. Quelli dell’Archivio del Pci depositati presso la Fondazione Gramsci e quelli dell’Archivio dell’ex polizia segreta jugoslava, l’Ozna, aperti nel 1990. Libri e documenti, ma come confinati anch’essi perché la sanguinante questione istriana non è mai diventata, per ragioni non soltanto politiche, una questione nazionale. E dobbiamo così ascoltare il linguaggio analfabetico e oltraggioso di un ministro della Repubblica e dei suoi disinformati seguaci.

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